Come ho perso i capelli in Cappadocia

La Cappadocia non è adatta ad essere visitata da persone che superano il metro e venti d’altezza. Le città costruite nella roccia hanno il limite di avere delle porte piccole e soffitti bassi, le città sotterranee ancora peggio. Dopo due giorni di andare dentro e

fuori stanze munite di porte minuscole, piegarsi in due per visitare una sala da pranzo o una chiesa a Goreme, oppure strisciare per avanzare tra i corridoi sotterranei delle Underground city di Derenkuyu, persi il conto delle testate e probabilmente ci sono ancora dei miei capelli attaccati sulla roccia come memoria della mia eterna lotta a colpi di cranio contro soffitti troppo bassi.

Appena arrivati in Cappadocia fummo accolti da un paesaggio mozzafiato e anche da un freddo non previsto. Dodici ore in autobus da Istanbul con un rompicoglioni di bambino francese che piangeva non si sa bene per che cosa (forse perché a 10 anni non te ne frega assolutamente niente di andare in gita con i tuoi in Cappadocia?) si fecero sentire, ma non crollammo stremati come quello che si corse 42,125 km per annunciare la vittoria a Maratona, no, noi no. Riuscimmo a trovare una stanza gelata in uno degli hotel costruiti nella roccia. Li chiamano “Cave Hotel”. Sono più scomodi, freddissimi d’inverno, e costano di più, però fanno molto Cappodocia style perciò passammo la notte al gelo testando il sacco a pelo e i vari indumenti per il futuro viaggio in Himalaya. Solo il mattino seguente venimmo a conoscenza della semplice strategia che usavano i locali per sopravvivere: uno scaldino elettrico che bastava chiedere alla reception.

Il paese dove organizzammo il nostro campo base si chiama Goreme. A Goreme ci sono delle fantastiche valli che attraversano la regione e inerpicate sui pendii ci sono le abitazioni, le chiese, gli “edifici” della città che comunità cristiane costruirono per nascondersi e proteggersi. La roccia si sgretolava al nostro passaggio. Una carezza su una parete e la polvere cadeva a terra. Dopo ogni curva ci trovavamo davanti piani di abitazioni incavate su per la montagna e ogni volta si rimaneva abbagliati dall’ingegnosità e dalla creatività che queste popolazioni avevano avuto spinte da necessità vitali. Dopo ogni curva la macchina fotografica scattava a ripetizione. Cosa fotografavamo? Roccia scavata ad essere pratici. Paesaggi marziani e pietra viva che parla e porta ancora addosso l’odore del pranzo e i passi di chi accompagnava a casa la moglie tenendola per mano o che andava a messa ad essere romantici o fumatore d’oppio.

Ma Goreme non bastò a segnare la parte superiore del mio capo. Non contento di aver perso la partita contro i soffitti della città in superficie, decisi di provarci con la città sotterranea di Derinkuyu. Lungo i corridoi a 20-30 metri sotto terra persi definitivamente la mia guerra a colpi di testate. Seppur ammirando nuovamente l’ingegno e la forza interiore che l’uomo ebbe in quella terra avversa, non osai immaginare l’odore che circolava per qui cunicoli…

Dopo due giorni di roccia e scalate decidemmo che avevamo viste abbastanza pietre almeno per un altro paio di mesi, fino al Nepal. Prendemmo l’autobus direzione Kurdistan, stavolta senza bambini capricciosi.