L'altopiano tibetano
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Attraversare il confine tra Nepal e Cina via terra è una formalità non tanto lunga. Dopo cinque giorni di attesa a Kathmandu, finalmente ricevemmo l’OK da Mister Kul. Il confine era aperto e l’avremmo attraversato in autobus. Un viaggio di sette giorni ci avrebbe portato a Lhasa attraverso il Tibet e poi avremmo continuato in treno per due giorni fino a Chengdu, in Sichuan.
Il giorno precedente la partenza fui colpito per la seconda volta dalla maledizione dello sherpa e costretto a letto e nel bagno per una notte intera. Temevo non avrei retto il tortuoso viaggio tra le montagne nepalesi conoscendo le loro strade, ma tutto filò liscio grazie a due imodium.
A Kathmandu, dopo la spedizione himalayana, passai giornate intere senza far nulla se non rilassarmi. Non amo la città, anzi, la trovo caotica, estremamente turistica in Tamel, i posti da visitare non sono molto interessanti, almeno per me. Insomma, non vedevo l’ora di scappare da quel luogo. L’unica cosa positiva era che potevo scambiare i libri letti con altri nuovi o usati. Ne lessi tre.
Il viaggio in Tibet fu un salasso, ma era l’unico modo di continuare il viaggio via terra. Spendemmo circa 420 dollari, incluso il visto fatto d’urgenza in un giorno con un gesto sotto al tavolo. Il costo fu ancora più elevato considerando che fummo obbligati ad acquistare il biglietto del treno per Chengdu, due giorni di viaggio, e la nostra agenzia, come tutte le altre, ci fece pagare il doppio del normale biglietto. Le chiamano “spese d’amministrazione”.
Non pensai troppo al costo per non rovinarmi il viaggio e salimmo sull’autobus con altri 35 turisti di tutte le nazionalità. Alcuni avrebbero proseguito per il resto della Cina come noi, la maggior parte sarebbe tornata indietro via aereo. C’erano pure due olandesi che stavano girando l’Asia in bicicletta.
Mi sedetti accanto ad Andy, un alto viaggiatore taiwanese. Mi disse che per gli abitanti di Taiwan non era un problema entrare in Cina, dovevano però utilizzare uno speciale documento, una specie di carta d’identità in quanto il passaporto taiwanese non esiste per i cinesi come non esiste uno stato separato di Taiwan. Pensavo che la gente con cittadinanza taiwanese non avesse il permesso di mettere piede in Cina, ed invece scoprii che ci sono scambi commerciali frequenti con aziende cinesi a Taiwan e viceversa.
Prima del confine fummo fatti scendere per attraversare il Ponte dell’Amicizia. Dall’altra parte ci attendeva la guida tibetana con un autobus locale. L’autobus e la guida nepalese sarebbero rimasti in Nepal.
Fummo avvertiti che saremmo stati perquisisti e che le autorità avrebbero sequestrato qualsiasi libro che parlava del Tibet, tutte le guide dove ci fosse una mappa del Tibet e di Taiwan, qualsiasi riferimento al Dalai Lama e ovviamente tutto quello che potesse sembrare un messaggio inneggiante a situazioni politiche e sociali diverse dalle correnti. Anche coltellini svizzeri sarebbero stati confiscati. Metà delle persone si disperarono nel dover perdere la guida appena acquistata.
Fu una precauzione inutile. Nessun volume fu confiscato e ne’ alcun coltello. Lonely planet furono fatte passare dopo essere state esaminate. Il controllo del mio zaino impiegò 2.24 minuti. Tanto rumore per nulla. In ogni caso il posto di dogana era aperto da pochi giorni e il flusso di persone e merci era ancora elevato dovendo smaltire settimane di blocco della frontiera. Dopo quattro ore eravamo sull’autobus tibetano pronti a partire. La nostra guida, Nordpul (o qualcosa di molto simile a Polo Nord in inglese), era un tibetano dalla carnagione scura, occhi mongoli e capelli rasta. Sfoggiava pure quattro lunghi peli sul mento. Mi aspettavo un altro tipo di tibetano.
Il tratto iniziale della strada che penetrava in Tibet era in costruzione e passammo attraverso cantieri ancora attivi e strade di ghiaia. Man mano che avanzavamo la strada si faceva più stretta. Due mezzi non avrebbero potuti passare contemporaneamente a meno che… passando a passo d’uomo con i pneumatici sfiorando il ciglio stradale che dava sull’abisso, incrociammo due, tre, quattro camion carichi di materiale da costruzione.
Vedevo il fiume tre o quattrocento metri più sotto e tra lui e noi solo il vetro, quattro ruote e un cespuglio. Tra vari tentativi di sdrammatizzare, una neozelandese disse che quel tratto di strada era peggio de “la via della morte” sulle Ande che aveva fatto in bicicletta. Ad un certo punto ci bloccammo per far passare una jeep che ci veniva incontro. Ci fermammo sul punto sbagliato, in mezzo al ghiaino. La strada era stretta e l’autobus non riusciva a fare presa sul fondo stradale. Le ruote slittavano, ma non si andava avanti. L’autista non accelerava molto per evitare slittamenti incontrollabili. Il baratro a 50 centimetri dalla ruota anteriore sinistra. Cercammo di togliere un po’ di sassi e di mettere qualcosa di più solido sotto alle ruote sperando che il peso del mezzo avesse contribuito a fare presa e a proseguire in modo controllato. L’autista tolse il freno a mano. Accelerò. Scese il silenzio nel autobus. Qualcuno pregò. Qualcuno chiuse gli occhi. Qualcuno imprecò. Il mezzo avanzò e per una frazione di secondo scodò verso sinistra, poi verso destra e ancora a sinistra in un breve e rapido zig zag che non vuoi vedere quando hai l’oblio a due passi. Alla terza scodata l’autobus avanzò dritto, in pieno controllo di sé stesso e delle 35 persone a bordo. Applauso dell’intero autobus per l’autista.
La strada migliorò. Divenne larga e asfaltata e sicura anche se costeggiava la montagna sul nulla. Cominciava a salire arrivammo a destinazione intorno ai 3900 metri. Qualcuno cominciava ad avere mal di testa. Io e Franta eravamo già abituati all’altitudine e confidavamo di non aver nessun problema nemmeno per i giorni seguenti, quando avremmo superato i 5000 metri per la quinta volta.
Dividemmo la stanza con due tedeschi. Dal giorno dopo ci fu promesso un albergo con camere doppie e acqua calda. Per quel giorno, mi accontentai di un letto e di essere ancora vivo.
Il giorno seguente attraversammo il plateau tibetano. Il percorso era in costante salita e solamente per la prima parte si insinuava strisciante sul lato delle montagne, poi entrò su un terreno quasi pianeggiante che cresceva in altitudine in maniera lieve, ma continua. Eravamo in una specie di ampia e arida vallata contornata da dei monti che si vedevano in lontananza. Non c’erano alberi, non vedevo acqua se non un rigagnolo imbarazzante, non c’era neve sulle montagne, ne’ vegetazione. C’era solo qualche cespuglio qua e là che non riusciva a crescere perché gli yak o le pecore gli stroncavano subito lo sviluppo. Non c’era gente in giro e oltrepassavamo raramente delle abitazioni. La guida ci spiegò che quelle case erano abitate dai tibetani che si dedicavano alla pastorizia e che vivevano lì solamente durante la buona stagione, quando c’era un po’ d’acqua e potevano pure coltivare e diventare parzialmente sedentari.
Perché mai qualcuno avrebbe voluto vivere o occupare una terra così inospitale?
Eravamo a 5000 metri e uscimmo. Faceva freddo e c’era molto vento. Gli effetti della mancanza di ossigeno si facevano sentire sui nostri movimenti. Il mal di testa si diffondeva e una ragazza neozelandese cominciò pure a vomitare. Tali erano gli effetti di una rapida salita a quelle altezze e il mal d’alta quota cominciava a colpire. Per me era incredibile che qualcuno avesse combattuto per occupare quelle terre e che persone volessero stabilirsi in quei luoghi, dall’atmosfera unica, ma impossibili da abitare.
Ciononostante i cinesi erano riusciti a costruire una superba autostrada che attraversava tutto il plateau per collegarsi al Nepal. Nella loro grandezza hanno pure costruito una strada che arriva al campo base dell’Everest sul versante tibetano. Pensavo alla fatica che avevo fatto per raggiungere il campo base due settimane prima e ora ero più o meno allo stesso livello, ma senza fatica! Non era la stessa cosa. Non c’era soddisfazione arrivare là in alto in questo modo.
Le montagne attorno a noi avevano colori diversi. Viola, giallino, marroncino, nero, rossiccio. Era quella la ricchezza di quel plateau. Il Tibet è ricco di minerali da sfruttare. Tempo fa la via della seta era il motivo per stare lì, ora ce n’era un altro molto più ricco. Probabilmente se non fosse stato per questo, non ci sarebbe stata nessuna autostrada e avremmo dovuto attraversare il Tibet sul dorso di un cavallo o di uno yak. Romantico, ma indietro di centinaia d’anni.
Lungo la strada ci fermammo a fotografare il lontano Everest. Nulla a che vedere con Kala Pattar e Gokyo Ri.
Ci fermammo per due giorni a Xigatse. Visitammo un monastero e non capii nulla delle quattro dottrine buddiste tibetane dei buddisti dal capello giallo, di cui fa parte pure il Dalai Lama in esilio, dal capello rosso, nero o di qualsiasi altro colore possa essere. Credevo non ci fosse tolleranza religiosa in Cina e invece scoprii, che almeno qualcosa è concesso, seppur non molto, in termini di libertà di professione del proprio credo. Certo, il Dalai Lama, in quanto poter politico e religioso, non è ammesso in Tibet, però almeno qualche monaco può continuare la tradizione buddista tibetana. Per la prima volta riflettei un po’ più a fondo sulla figura del premio Nobel per la Pace. Senza considerazioni politiche in quanto mi trovavo in Cina, nella regione autonoma del Tibet, vidi per un attimo il potere religioso e politico in un’unica persona, come il papa in Vaticano. Per quanto buone possano essere le intenzioni di un capo religioso, sono del parere che i due poteri, spirituale e politico, debbano essere divisi, come sono divisi nella maggior parte dei Paesi.
Scoprii che i buddisti tibetani hanno un rituale che definii barbaro secondo la mia cultura italo-cristiana. Sopra al monte che spalleggiava il monastero vidi degli uccelli rapaci che volavano in cerchio. Mi davano l’idea di avvoltoi sulla preda. In effetti era così. Uno dei rituali di commemorazione dei defunti consisteva nel cosiddetto “sky burial”, funerale del cielo. Il corpo del defunto veniva dato in pasto a quegli uccelli che volavano in cerchio dopo essere stati puliti e fatti a pezzi seguendo l’antica tradizione tibetana. C’è pure il “fish burial”, che consiste in un funerale nell’acqua. Capii senza chiedere nulla il perché non erano ammessi stranieri sul quel monte. Al pensiero mi passò l’appettito.
Per le ampie strade di Xigatse non c’era molta gente in giro e cinesi si mescolavano a tibetani. Il nostro albergo era un posto lussuoso e trovammo pure un internet cafe. Questa fu un’altra sorpresa, almeno per le mia aspettative occidental-americane antisino-comuniste. Mi aspettavo un totale controllo e blocco di molti siti internet, e invece l’unica cosa bloccata era face book, e qualche blog. Pensai che potevo sopravvivere senza “faccia libro”.
Altra cosa che mi colpì fu la quasi mancanza di presenza militare cosa che mi aspettavo in maniera massiccia, almeno quanto in Iran o Egitto, per non dire il tribolato Pakistan. Invece, tutto tranquillo a Xigatse, e pure lungo la strada, nella città di Giantsi, dove ci fermammo per una notte. Solo a Lhasa vidi dei soldati, ma erano meno di quelli che vedevo scorazzare avanti e indietro un po’ a tutte le ore a Kathmandu.
A Lhasa fummo avvertiti di stare attenti a cosa fotografavamo e a dove andavamo, ma col senno di poi mi sembrarono molto eccessive, quasi quanto le nostre inutili preoccupazioni in Iran.
Saltai il Potala Palace, il monumento principale. La colpa fu da attribuire alla carne di yak mangiata sconsideratamente il giorno prima. Da Kathmandu non mi ero ancora sistemato. Per fortuna potevo guardare la tv cinese nella nostra bellissima camera d’albergo arredata con mobili di tradizionale fattura tibetana. Guardai il basket cinese e quello NBA, la Champions’ League e due o tre film sull’eroica resistenza cinese contro l’oppressore giapponese. In fin dei conti il Potala Palace era solo un altro palazzo del potere…
Visitammo altri monasteri nei due giorni che rimanemmo a Lhasa e decisi che la mia dose di religiosità buddista sotto forma di monumenti era piena per i prossimi vent’anni. Vagai un po’ per Lhasa, nella parte vecchia piena di bancarelle per turisti, e la parte nuova, traboccante di negozi alla moda. L’atmosfera mi sembra tranquilla, ma non parlando tibetano, ne’ cinese, non potei mai sapere se dietro a quella serena facciata e dentro ai rumorosi e accoglienti bar da tè, c’era ancora un po’ del rancore del 2008. Visto da fuori tutto era pulito e tranquillo.
Dovemmo aspettare un giorno in più del previsto il nostro treno per Chengdu. Forse fu un segno del destino, perché viaggiamo con Andy, il taiwanese mi compagno di viaggio da Kathmandu al confine. Io, Franta e Andy saremmo scesi da quel treno dopo due giorni e avremmo avuto in Andy la guida che parla mandarino per un’altra settimana. Un gran colpo di c… fortuna!
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