15.04 Una birra ghiacciata sul Kilimangiaro
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5895 meno 1830 uguale 4065, metri di dislivello in tre giorni. Non male. Da incoscienti.
All’entrata del parco nazionale del Kilimangiaro eravamo a quota 1830 metri e il solo pensiero di salirne altri 4000 in così breve tempo mi elettrizzava. Eravamo arrivati fin lì dopo aver superato un paio di montagne e le gambe e il fiato erano pronte.
Kessy brothers avevano organizzato le nostre guide e i portatori per salire lungo al Marangu Route. Noi avremmo portato il nostro solito bagaglio di una quindicina di chili, mentre i portatori si sarebbero occupati del cibo. Incontrammo la nostra guida al cancello del parco. Paul aveva ricevuto come premio lo strabismo di venere che però funziona solo con le donne. In testa indossava un capellino col frontalino appiattito. Non dava un impressione di essere intelligente, ma sembrava sapere cosa fare a parole, anche se guardava sempre due metri alla mia sinistra quando parlava con me.
Pronti, partenza, via. Imboccammo il sentiero che si insinuava nella foresta come un serpente affamato. Nella mia immaginazione il percorso sarebbe dovuto essere duro e pericoloso almeno quanto quelli del Monte Elgon e del Monte Kenya, invece la salita era lieve e costante su una via larga e ben mantenuta. Dopo pochi metri incontrammo pure dei ragazzini che cercarono di venderci delle magliette e che volevano fare non so bene cosa, ma che implicava un camaleonte, un ramo e noi. Il ramo mi insospettì e decisi che non era nulla di interessante. Paul cominciò a urlargli parole dure in swaili. I ragazzini sparirono nella boscaglia come briosche in offerta sul bancone del pasticciere.
Delle mucche annoiate attraversarono il sentiero fregandosene della nostra presenza e delle scimmie colobo vennero a curiosare. Immaginai che scommettessero su chi ce l’avrebbe fatta a salire fino in cima e chi invece sarebbe dovuto rientrare in barella.
Continuammo per la gentile ascesa tra gli alberi con il sorriso sulle labbra prendendoci in giro con Paul. A mezzogiorno avevamo già raggiunto il primo campo, Mandara hut, dove ci fermammo solo per mangiare un panino con qualcosa di rosso dentro, forse ketchup, forse altro. Subito dopo il campo la vegetazione cambiò e gli alberi si fecero più radi fino a scomparire e lasciar spazio a cespugli. Dopo circa trenta minuti di cammino con l’abbondante pranzo alla salsa rossa sentii un formicolio alle mani. Divenne più intenso col passar del tempo e con molta lucidità ed esperienza medica dissi: “c’è qualcosa che non va.”
Mi preoccupai non poco. Chiesi a Paul cosa potesse essere e se fosse collegato con l’altitudine anche se eravamo ancora sotto i tremila metri. Mi chiese se avessi preso delle medicazioni, una pastiglia chiamata Diamox che serve a combattere i problemi dell’altra quota, doping praticamente. “Io? Mai. Sono un viaggiatore impreparato, ma pulito.” Credetti alle mi stesse parole. Mi fermai e decisi che non mi sarei mosso fino a che il formicolio non fosse passato del tutto. Era possibile che avessi dei problemi già all’inizio? E cosa sarebbe successo dopo?
Fu una sensazione strana. Il formicolio avanzava dalle punta delle dita fino alle intere falangi. Sembrava inarrestabile. Onestamente ero sull’orlo del precipizio della paura con l’intestino pronto a fare la sua parte. Non volevo tornare indietro. Non riuscivo a capire perché il mio corpo stesse reagendo in quel modo. Io non volevo star male, volevo che il formicolio se ne andasse al più presto, ma ciononostante la sgradevole sensazione permaneva come una mosca fastidiosa che non se ne vuole andare.
Dopo una quindici di minuti di spirali mentali verso l’abisso delle cose più nere e malevoli che mi potessero accadere sul Kilimangiaro, ero stufo e spaventato. Ora doveva sparire. E così com’era venuto, il formicolio se ne andò. Era un ammonimento: “Non fare lo sbruffone. Questa è una montagna cazzuta, e tu sei solamente pelle e ossa ricoperti da colorati tessuti a prova di vento e pioggia. Ma la montagna, se vuole, ti prende da dentro e ti rivolta come un calzino. Umile devi stare.”
Forse esagerai, ma spesso durante il mio viaggio lessi segnali anche dove non c’erano. Solitamente li interpretai come avvisi di non sottovalutare alcune situazioni, di non perdere il contatto con la realtà e mantenere la giusta consapevolezza dei miei limiti e di quello che mi circonda.
Dopo quattro ore di cammino smettemmo di ridere e scherzare. Lo zaino diventava sempre più pesante con il passare dei respiri. Dopo sei ore eravamo in vista della nostra meta e ci sedemmo a rifiatare in una sorta di area di servizio con tanto di bagno e panche da campeggio. Fino a quel momento incontrammo solamente pochi turisti. Siccome avevamo saltato una fermata eravamo in uno spazio temporale dove gli altri erano tutti fermi nelle loro postazioni. Quell’area di sosta, amaramente, portò alla mia vista quello che la salita al Kilimangiaro veramente è: una trappola per turisti, dove escursionisti esperti si mescolano a avventurieri cittadini dell’ultima ora tutti accompagnati guide che spingo a fare tutto in fretta perché il cliente deve pagare 110 dollari al giorno solamente per entrare al parco e dormirci. Un’oscenità che mi fece venir voglia di sporcare con dei graffiti la cima della montagna, di scriverci ad esempio “viva Juve”, o “Andrea was here” oppure “Italians do it better”, insomma qualcosa di altamente intelligente, così per sfregio. La mia mente calcolò che ogni giorno sul Kilimangiaro equivale a circa 35-40 litri di birra a Praga. Perché ero lì sopra con il formicolio alle mani che per fortuna era passato?
Mi risposi con le parole di Sir Mallory, alpinista morto nel tentativo di scalare l’Everest “Perché vuole scalare l’Everest? Perché c’è, è là.”
La nostra tabella di marcia che stavamo rispettando senza difficoltà ci imponeva la salita e discesa in cinque giorni che era il minimo del tempo ammesso dalla autorità della Tanzania. Inizialmente pensavamo a sei giorni, ma vista la nostra forma fisica potemmo accorciare di un giorno pensando alla birra a Praga.
Mentre riflettevo su questi profondi aspetti della vita osservavo la valle sottostante. Era interamente coperta di nuvole. Il Kilimangiaro è una montagna solitaria. Non si attraversano vallate, fiumi, ponti tibetani. Non ci sono viste mozzafiato. A 3500 metri c’era solo una soffice distesa di nuvole bianche che cotonava il paesaggio. Sopra di noi il sole stava andando a riposarsi dopo una giornata che all’equatore ha sempre gli stessi ritmi.
Prima di riprendere il cammino ci passò davanti una barella. Su di essa era sdraiato un uomo in stato di incoscienza e quattro membri del soccorso montano lo stavo portando ad altezze più basse e poi in città correndo velocemente. Ogni giorno ci sono persone che si lasciano trasportare fuori dal parco in barella. Purtroppo non lo fanno perché sono furbe, anzi, il motivo principale è l’incoscienza, la mancata preparazione e il non saper fermarsi davanti ai propri limiti fisici. Con l’altitudine non si scherza, anche se costa 110 dollari al giorno. Ma dove eravamo? La montagna dovrebbe essere gioia e sfida, ma che senso ha rischiare di finire in barella? Non sapevo le statistiche ma con tutti quelli che avevo parlato precedentemente, la percentuale di persone che arrivavano alla cima era circa il 70%, di cui la maggior parte prendevano delle medicine e molti arrivavano lì sopra come degli zombie. Volevo tornare indietro. Non ero anch’io lì solamente per dire “fatto, son figo”? Non ha senso andar lassù così. Poi pensai che “salgo su per la montagna perché è là”. E questo bastò come spiegazione.
Al campo Horombo Camp a 3500 metri dormimmo in una capanna di legno. Un posto comodo. Il giorno seguente lo passammo ad acclimatarci anche se noi dovevamo essere già abituati ai 4200 metri. Salii fino ai piedi della seconda cima del Kilimangiaro, Mawenzi, a 4600 metri da dove si può ammirare quel bel panettone ricoperto di glassa che è Uhuru Peak a 5895 metri. Mentre sedevo su una roccia accompagnato da un passerotto di montagna che voleva le briciole del mio panino pensai: “domani sarai il mio dessert, domani ti mangio.” Avevo già dimenticato il formicolio alle mani e forse fui un po’ troppo arrogante.
Gli ultimi due giorni erano organizzati come un tour de force. Saremmo saliti fino a Kibo Camp a 4800 metri, una passeggiata di quattro-cinque ore su un sentiero che cresceva continuamente senza vegetazione e senza acqua. Dopo qualche ora di sonno al freddo avremmo cominciato la salita a mezzanotte circa per raggiungere in mattinata la vetta e scendere velocemente al campo a 3800 metri.
A Kibo Camp arrivammo in scioltezza e salimmo fino a 5100 a prendere gli ultimi raggi di sole come delle lucertole. Alla notte ci svegliammo lentamente e lasciammo il campo per ultimi all’una. “Pole pole”, piano piano, questa era la parola d’ordine da ripetersi nella propria mente. Altro che pole pole, eravamo in forma, due sprinter della montagna. Superammo diversi escursionisti, pure i nostri acerrimi nemici, un gruppo di studenti in medicina americani, che però si dopavano. Avevamo nel mirino pure il soviet team composto da tre ragazzi e una ragazza che alla mattina, in tenuta militare, facevano flessioni. Al campo c’è spirito da camerata, ma sul sentiero è una gara a chi arriva primo, e noi zitti zitti glielo stavamo mettendo in quel posto alle spedizioni allenate e preparate delle super potenze
Il respiro si faceva man mano più pesante e le gambe si lamentavano sempre di più, le mani cercavano sempre la via delle tasche lasciando i bastoncini a penzoloni e inutili, solo i piedi, stranamente, erano al caldo e non rompevano le scatole più di tanto. “Tutto sotto controllo, Capo. Alla via così.” Sentivo il mio corpo che mi parlava. Forse il mal d’alta quota si stava manifestando sotto forma di delirio.
In poco più di quattro ore giungemmo a Giliam’s Point a 5600 dove finiva la parte più ripida e dura dell’ascesa e cominciava la leggera salita di un paio d’ore fino al punto più alto.
Franta cedette. Non furono a tradirlo le sue gambe, né la sua volontà e né tanto meno il fiato. Fu semplicemente l’altitudine sotto forma di mal di testa, senso di vomito e disorientamento. Manifestazioni che nell’ordine si sono fatte avanti in Franta. Per due cento metri dovevamo fermarci spesso sul bordo del cratere che ancora non vedevamo data l’oscurità, fino a che Franta si alzò e barcollò. “Franta, tu non vai da nessuna parte in questo stato.” Fortunatamente era ancora lucido e decise di tornare sui suoi passi. Non sarebbe stato facile, ma era l’unica cosa da fare per evitare di avanzare come uno zombie o peggio tornare in barella o finire di sotto. In ogni caso era arrivato a 5700 e penso che sia stato un successo. In noi ci fu sempre il pensiero che fummo troppo rapidi nella salita nella nostra inesperienza.
Siccome rimasi senza guida, in quanto scese con Franta, aspettai per un po’ con lo sguardo nel buio perso in lenti pensieri fino a che arrivarono una coppia di catalani che avevo conosciuto il giorno prima al campo. Salii con loro.
Gli ultimi metri furono duri per chiunque. Maria, la catalana era in grossa difficoltà. Avanzava anche lei come un automa senza vita programmato per arrivare fino alla cima. Vidi moltissime persone senza espressione lassù. Mi chiesi ancora perché? E mi risposi ancora “perché sta là.” Sì, a volte non si ragiona con le persone.
Arrivai in cima tra il ghiacciaio sulla mia sinistra e la caldera deserta e rocciosa sulla destra. Feci le foto nel gelo. Avevo solo un leggero mal di testa. Nonostante sia un uomo di mare, la montagna non ce l’aveva con me. Scesi quasi di corsa, una lunga corsa. Subito dopo Giliam’s Point vidi un uomo che veniva accompagnato. Aveva perso la vista a causa dell’alta quota. L’avrebbe riacquistata parzialmente giù al campo.
Scivolavo veloce sulla ghiaia divertendomi come un bambino. Ero euforico per aver raggiunto la vetta e volevo condividere la mia gioia con tutti. Al campo tutti ci scambiavamo pacche sulle spalle e strette di mano, sia chi ce l’aveva fatta e chi no. Lo sforzo e il tentativo era da elogiare in tutti.
Uscimmo dal parco il giorno dopo e andammo a bere una birra al bar con la nostra guida. La birra non poteva che chiamarsi Kilimangiaro, ed essere ghiacciata come la vetta.
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