14.01 Burundi, sospesi nella terra di nessuno
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La prima notte in Burundi la passai sulle acque territoriali del porto della capitale Bujumbura. Fu una notte tranquilla sui container del Teza e senza zanzare. Sbarcai e all’immigrazione dovetti improvvisare una lingua che non ho mai imparato il francese. “Vous êtes italien? Les italiens sont des amies . Bienvenue!”. In qualche modo, grazie anche alla simpatia dell’ufficiale alla dogana, ci capimmo e ottenni il visto di transito per tre giorni.
Con Franta seguimmo il compagno di viaggio tedesco che era già passato di là a bere birra. Conosceva un po’ i posti e gli alberghi economici del Africa Orientale. A lui piaceva l’Africa e girava per assaggiare tutte le birre locali. Mi sembrò un ragione paradossale per un tedesco. Allo stesso tempo pensai che era un tedesco e un po’ strani lo sono gli amici crucchi.
C’era poca gente per strada essendo sabato mattina presto, e chi era per strada correva. Sì, correva. Sembra che al fine settimana il Burundi corra. C’era ogni sorta di atleta improvvisato quella mattina. C’era quello con l’abbigliamento sportivo Nike o Adidas (forse made in China?), chi con magliette e pantaloncini laceri e sporchi, chi con le ciabatte, ragazzi, giovani, business man, adulti in perfetta forma fisica e panzoni, e c’era pure qualche donna. Una nazione che correva, non si sa dove, ma correva. Ah, se solo avessi avuto le scarpe da ginnastica una decina di chilometri me li sarei fatti. Fortunatamente avevo solo scarpe da trekking. Avevo la mia scusa per non correre.
Anche Bujumbura come tutte le capitali e città africane non offre molto che attragga i turisti o viaggiatori. Inoltre avevamo solo tre giorni per lasciare il Paese e la nostra direzione era nord verso Kigali, in Ruanda.
Partimmo il mattino del giorno dopo dalla stazione degli autobus. L'autobus era pieno di ruandesi che tornano in patria per votare. C’erano le elezioni presidenziali e io non lo sapevo. Al solito impreparato! Incrociammo le dita sperando che non ci facessero problemi al confine. I nostri compangi di viaggio non erano molto loquaci, solamente uno di loro ci intrattenne a lungo con delle idee alquanto singolari.
“Putin è un uomo saggio. Perché solo gli uomini saggi possono mantenere il potere così a lungo e fare del bene alla gente.” Ehm… cos’altro “I russi sono i migliori al mondo. Voglio andare in Russia.” Ovviamente non aveva tutte le informazioni disponibili. Franta, che il comunismo russo l’ha vissuto in Repubblica Ceca, stava per esplodere, ma allo stesso tempo era divertito da quelle considerazioni. Sicuramente era uno dei pochi fuori la Russia che vedeva Putin come un uomo saggio. Concluse dicendoci ad alta voce in tono minaccioso e pieno di odio “we will hunt them down. Gli utu che hanno compiuto il massacro, li cacceremo e stermineremo.” Odio. Che bel Paese e che bella gente in Ruanda.
L’autobus pennellava i tornanti sui monti del Burundi. Il paesaggio era monocolore: verde. I fianchi delle montagne erano coperti da palme di banane, piante di caffè e tè che si inerpicavano sulle asperità del terreno. Qua e là qualche casa in legno interrompeva la monotonia della foresta. Anche quella mattina era giornata di corsa. Il Burundi continuava a correre in pianura e in montagna. A fianco a noi sfrecciavano in discesa le biciclette che trasportavano le merci da un villaggi all’altro. I ragazzi che le montavano non erano da meno del “diablo” Chiappucci, solo che in salita si facevano più furbi e si agganciavano al retro dei camion per una comoda corsa nei tratti più impervi.
Tutto filava liscio fino al confine, quando la legge di Murphy colpì e quello che poteva andare storto andò storto. La nostra richiesta online per visto d’ingresso non era in regola. Avevano preso tempo chiedendoci via email se avevamo prenotato tramite un agenzia viaggi facendo così ripartire il conto dei tre giorni per l’approvazione della richiesta. Speravamo di poter risolvere la questione al confine. Discutemmo a lungo con l’addetto. Parlammo con l’ufficiale in servizio che contattò al telefono l’ufficio a Kigali, ma non ci fu nulla da fare. La nostra domanda era ancora in analisi e non ci lasciavano passare. Non so quanto contasse il fatto che il giorno dopo ci sarebbero state le elezioni e Kagame, per ordine pubblico, non ci voleva tra i piedi. Ci impuntammo e rimanemmo in un angolo pensando di salire sull’autobus e andare a Kigali in ogni caso, ma poi decidemmo per un comportamento più savio e aspettammo in un angolo.
L’autobus non poteva aspettare a lungo e l’autista venne a malincuore a salutarci portandoci i nostri bagagli. In quel momento eravamo illegali in Ruanda e senza mezzo di trasporto. L’ufficiale uscì tre volte sempre più arrabbiato dicendo che i suoi superiori non lo lasciavano darci il visto e che dovevamo uscire dal Ruanda. Dei poliziotti cominciarono ad andare avanti e indietro e a guardarci in modo strano. Non ci restava altro che tornare da dove eravamo venuti.
Uscimmo dal Ruanda senza essere mai entrati e decidemmo che in Ruanda non ci saremmo andati durante il nostro viaggio. Loro non ci volevano e noi non volevamo più passare per Kigali. Saremmo tornati in Burundi, entrati in Tanzania dal Burundi orientale e raggiunto il lago Vittoria a Mwanza. Da lì avremmo proseguito via cargo per Kampala, Uganda. A tutt’oggi non abbiamo ricevuto alcuna risposta, negativa o positiva, alla nostra richiesta.
Prima di ritornare in Burundi ci sedemmo nella terra di nessuno sotto ad un albero, tra il ponte che separa i due Paesi e la frontiera col Burundi. Ci fecero compagnia mendicanti e bambini di strada senza genitori che vivevano lì. Sembrava ci fosse un villaggio con la sua popolazione nella terra di nessuno lungo il fiume. Un gruppo di persone mal messe e senza soldi che sopravvivevano ogni giorni di quel poco che riuscivano a trovare tra i due Paesi che non li volevano. I bambini erano affamati e Franta spezzò il panino che ci era rimasto e glielo passò. Lo divorarono quasi inghiottendolo. Non erano sporchi perchè giocavano con l’acqua del fiume, ma erano scheletrici ed affamati, coi vestiti laceri e consunti. Ci osservavano a distanza e ci sorridevano. Forse ci prendevano in giro, ma rispondevano ai nostri sorrisi con altri sorrisi. Erano una decina e avrei voluto portarli via con me, dargli un nome, un'età, una famiglia, una casa, un'identità, ma non sapevo che fare per migliorare la loro situazione in maniera significativa e avevo il problema dal visto e del passaggio in Burundi. Ritornammo sui nostri passi con una sensazione di disagio nel lasciare quei bambini, ma si stava facendo tardi e non avevamo nulla da dargli.
Un comprensivo ufficiale del Burundi annullò l'uscita dal Paese e potemmo rimanere ancora due giorni. Oramai avevamo deciso che avremmo attraversato l'est del Burundi fino in Tanzania anche se si diceva che la zona fosse ancora un po' tormentata. Non c’erano informazioni nella nostra Lonely Planet perchè “al momento della ricerca non fu possibile andare in quella zona in quanto ad alto rischio”. La nostra guida aveva un paio d’anni e nel frattempo le cose s’erano sistemate. O almeno così speravamo.
Passammo la notte a Kayanza. Improvvisando cosa fare in quanto non avevamo alcuna informazione su quel paese. Trovammo un albergo a buon mercato grazie ad un tassista onesto. Il cibo era fantastico. Mangiammo del pollo con patate fritte e una sorta di spezzatino di vitello semplicemente squisito. Innaffiai il tutto con della birra locale e cercai di comunicare in un francese improvvisato con la gente locale che non incontrava spesso un bianco da quelle parti. Un paio di avventori del ristorante insistettero nel parlare inglese. Eravamo gli unici in quel Paese francofono coi quali potevano esercitare quello che avevano studiato.
Al mattino passeggiammo per il paese incuriositi e osservati da occhi altrettanto curiosi. Tutti si fermavano a guardarci e a salutarci. Molti non avevano mai visto un msungu in vita loro. In lontananza sentivo i bambini gridare "msungu, msungu" e affannarsi fino al ciglio della strada dalle loro case cinque metri più in sotto dove cominciava la collina di palme di banane e piante di tè e caffè. Si fermavano incantati e quasi trattenevano il respiro fino a che noi li salutavamo e gli sorridevamo. Allora si sbloccavano con grida di felicità e sonore risate. Che gioia in quegli occhi e in quelle manine caro msungu. Tre bambini ci corsero incontro spingendo sulla strade tramite un lungo bastone le loro macchinine di fil di ferro mostrandocele orgogliosi. Basta poco per essere felici. O meglio loro sembravano essere felici, non posso garantirlo che lo erano. Io sicuramente lo ero.
L'autobus per il confine non passava, solita Africa. Prendemmo un taxi e ci schiacciammo in sei, più l’autista, i nostri bagagli e quelli degl’altri. C’era pure una signora un po’ abbondante come ne avevo già viste parecchi in Africa. O avevano fisici anoressici o obesi. Era difficile trovare una via di mezzo.
Lungo la strada vidi un camion rovesciato e bambini che cercavano di prendere quel che potevano e scappare. Dicono che in quella zona era meglio non fermarsi ad aiutare, per evitare di dover chiamare ulteriore aiuto. Se succede qualcosa per strada si doveva andare dritti fino al primo posto di polizia e lasciar fare a loro.
L’autista del nostro taxi era un pilota di rally e agguantai al volo un altro taxi fino Muiynga che lui aveva fermato con un cenno della mano mentre sfrecciava a oltre centochilometri all’ora tra le curve dei monti del Burundi.
Nel taxi incontrai un prete evangelista, padre Daniel, che conosceva bene la zona in entrambi i Paesi siccome andava da quelle parti a predicare. Il fatto che fossi italiano gli ispirò simpatia. Spesso mi succede che essendo italiano la gente è più cordiale e pronta ad aiutare. Ne fui fiero. Ci aiutò a superare la frontiera prima che chiuda e con alcune sue conoscenze superammo velocemente in un taxi i 5-6 chilometri che separano i due posti di frontiera.
Finalmente Tanzania. Arrivammo all'imbrunire e gli amici di padre Daniel ci accompagnarono alla guesthouse per viaggiatori bloccati a Kabanga. Trovammo una doppia a due euro e mezzo e un piatto di riso e fagioli. Un pasto semplice, ma vero come la gente che incontrai in quei due giorni in Burundi.
Grazie Africa.
- blog di Unprepared Andrea
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