El Nido, "Broeto de sepe", "museto", una spacciatrice di banane all'ultima frontiera.

A El Nido evitai i ristoranti degli alberghetti fronte mare e mi intrufolai nella strada parallela alla costa ricercando dei posti dove poter mangiare pesce a poco prezzo. In una laterale trovai la mia spacciatrice di banane.
Passavo davanti e la guardavo negli occhi. Con un minimo segno dei sopraccigli verso l’alto indicavo che avevo bisogno della roba. Lei cominciava a sistemare delle scatole di conserva. Io entravo nel negozio. Senza dire nulla mi avvicinavo al bancone. Lasciavo 25 pesos, poco meno di mezzo euro, e uscivo. Andavo a sbirciare dentro alle pentole esposte sulle strada del ristorantino locale di fianco al mio “banana pusher”. Lei facendo finta di niente andava al bancone senza incrociarmi. Prendeva il denaro. Lo contava. Si accucciava dietro al bancone. Si rialzava con un sacchetto e poco più di un chilo di banane, taglia piccola, perché a me piacevano così. Lo depositava vicino ai mango verdi e tornava a sistemare le scatole. Io rientravo. Andavo dai mango verdi. Mi mostravo interessato. Ne prendevo in mano uno. Lo facevo volare sulla mano un paio di volte. Davo l’impressione di comperarlo, di essere un esperto in frutta esotica. Lo annusavo e poi lo riponevo vicino agli altri della sua specie. Mi immaginavo il mango che vedendomi ogni giorno, se avesse potuto parlare mi avrebbe detto: “Oh no, oh no. Lasciami stare. Non prendere me. Lasciami qui. Tanto so che poi non mi compri e allora perché tutta questa messinscena. E vabbè, ora che mi hai preso in mano almeno non lanciarmi per aaaaaaaaaria, ti preeeeeeeego, meeeeeetimi giù, baaaaaaaaasta.” Dopo un ultimo sguardo ai mango e agli ananas, velocemente prendevo il sacchetto con le banane e andavo al ristorantino. Questa scena si ripeteva praticamente ogni giorno.
Al ristorantino di fianco alla spacciatrice di banane trovai un piatto casareccio, nel senso che mi ricordava casa mia, Caorle. Sotto uno dei coperchi delle pentole in esposizione e piene di cibo c’era una sorta di “broeto de sepe”, zuppa di seppia. A dir il vero il “broeto” era piuttosto nero, sembra fatto con il nero di seppia, invece era fatto con non so bene quale salsa all’aceto nella quale vedevo galleggiare enormi pezzi d’aglio e pure dello zenzero. Non potei rinunciare all’assaggio. Ordinai un piatto che mi fu servito con del riso dalla gentile e sorridente figlia della cuoca che per un istante aveva lasciato la sorella più piccola correre su e giù per il locale con le sue ciabattine che emettevano uno squittio ad ogni passo. Abbastanza stressante, ma non poté non strapparmi una risata divertita.
Nelle pentole c’erano varie pietanze che però si riducevano a variazioni del tema: pollo o maiale. C’era la versione Adobo, quella Adareta, e la Caldereta. Oltre al “broeto”, che scoprii essere della versione Adobo, presi anche un pesce fritto chiamato “tonto”. Aggiunsi un coca-cola da buon turista, ma anche da buon filippino.
Al momento di pagare la ragazza mi disse: “100 pesos, prego.” Cioè circa 1.70 euro. Feci rapidamente due stime. Solitamente avrebbe dovuto essere circa 120.
“Sei sicura che il conto sia corretto?” Osservai gentilmente.
“Ehmmmm… aspetta un attimo per favore.” E cominciò a fare dei calcoli mentali che dalla sua espressione sembravano equazioni a tre variabili da risolvere mentalmente. Poi arrivò alla conclusione e gridò qualcosa al padre che stava nel retrobottega, probabilmente a dormire o a guardare l’NBA.
Ne seguì un breve dialogo fatto di numeri in un simil-spagnolo, viente, trenta, dies. Mi guardò e mi sorridente disse: “80 pesos, prego.” Ma come? Ancora meno? Pagai ed evitati di chiederle di rifare i conti altrimenti avrei finito col mangiare gratis.
Oltre al negozio di frutta e al ristorantino, trovai un panificio dove sfornavano durante tutta la giornata e fino alle 10 di sera biscotti, paste, torte e pane di una squisitezza inaspettata in un’isola coperta dalla foresta nel sud est asiatico. Ne fui felice e fu il mio appuntamento fisso per la colazione ad eccezione di una mattina.
Quel giorno mi svegliai con la voglia di qualcosa di salato e di locale. Andai sulla spiaggia. Vidi un ristorantino con sabbia al posto del pavimento. Dentro c’erano solo filippini. Sul bancone c’era un cartello con lo spelling inglese sbagliato e un menu dove spiccavano parole come tocino e lusangana. “Eccoti, colazione alla filippina.” Così dicendo ad alta voce come un pazzo tranquillizzai il mio stomaco e mi diressi verso il ristorante. Mi sedetti su uno sgabello in legno fatto su misura per la gente locale. Praticamente avevo le ginocchia sotto al mento.
Conoscevo già il tocino. Avevo avuto un’esperienza positiva a Puerto Princesa. Si trattava di una sorta di salsiccia piccola. Decisi di provare la lusangana il cui nome mi portava alla mente la luganega, un tipo di salsiccia che veniva immolata sul sacro rogo delle grigliate estive assieme alla polenta. Di conseguenza la mia mente si aspettava qualcosa di simile e fu sorpresa quando, assieme al riso e ad un uovo al tegame, arrivarono due fette di cotechino, o “musetto”. Certo che due fette di cotechino bello grasso alla mattina… “Vabbè,” pensai “proviamo.” Mangiai di gusto mentre dei filippini mi guardavano e approvavano con dei sorrisi e con delle parole in filippino, oppure mi prendevano in giro.
Le donne erano invece attente a sorvegliare i piccoli che scorazzavano su e giù tra il bagnasciuga e i ristoranti. Uno bambino si immerse in acqua e raggiunse una delle barche ancorate a pochi metri dalla riva. Subito un altro si lanciò al suo inseguimento. E poi un altro e ancora un altro. Uno, due, quattro, otto, sedici… Con incremento esponenziale il mare si riempi di bambini urlanti in pochi istanti. Le mamme non si scomponevano. I padri finivano la loro colazione.
I piccoli pirati decisero per istinto di assaltare la barca. Le imbarcazioni a El Nido erano fatte da uno scafo centrale supportate da due ali che sfiorano l’acqua per favorirne l’equilibrio. A volte davano l’impressione di planare sull’acqua. I bambini cominciarono l’arrembaggio da una di queste ali che poi veniva usata come pontile per tuffarsi. I due marinai della barca desistettero dallo sgridare i piccoli che non gli davano retta in ogni caso e intuirono che l’unico modo era quello di allontanarsi in mare aperto con i loro clienti seduti che scattavano foto per documentare l’assalto.
I bambini desistettero anche perché a quel punto i genitori si alzarono e cominciarono a richiamarli a gruppetti in quanto ogni adulto era responsabile per quattro o cinque bambini.
Presi un Nescafe mentre una delle figlie della padrona che gestiva il ristorante venne ad allattare suo figlio al tavolo di fianco al mio. Conclusi quella mattinata tornando al mio albergo a dormire anche se in camera faceva caldo e il ventilatore non funzionava a causa del quotidiano taglio della corrente.
A El Nido non c’era elettricità dalle cinque del mattino alle due del pomeriggio. Non mi servì una sveglia durante il mio soggiorno in quanto appena il ventilatore cessava di generare il lieve alito d’aria fresca, il caldo impediva di dormire. Di conseguenza ero molto mattiniero. D’altra parte, tra immersioni e giri per le decine di isole e snorkeling, c’era ben poco motivo di rimanere a letto fino a tardi.
Due eccezione mi svegliarono al posto del black out. Una mattina sentii del solletico sulla mano: era uno scarafaggio che si era arrampicato sul mio letto; e un’altra un rumore proveniente dalla porta: un topolino cerca di intrufolarsi non invitato in camera mia attraverso la larga fessura sotto la porta. E dire che la pensione in riva al mare che avevo trovato era pulita, comoda e poco costosa. Ma mi trovavo a Palawan, che come dicevano la lonely planet e un ragazzo che incontrai in mezzo al bosco intento a tagliare alberi con un machete per costruire una casa, era “the last frontier”.