Puerto Princesa, basketball che passione!

Non avevo intenzione di visitare un’altra capitale caotica, e così di Manila ricordo solo l’aeroporto. Presi dopo qualche ora dal mio arrivo nelle Fillippine la connessione per Puerto Princesa, Palawan “The last frontier”, l’ultima frontiera, come dicono la guida e alcuni filippini.
Appena arrivato mi incamminai verso il centro città dribblando i tricicli. Mi accorsi subito che non era una saggia idea. Il caldo afoso e il sole perpendicolare di mezzogiorno aveva bloccato la città e dopo pochi passi mi reso conto che mi sarei squagliato come un ghiacciolo al sole.
Raggiunsi velocemente la pensioncina Banwa dove un simpatico filippino mi fece accomodare in camerata. Puerto Princesa non è un granché e girarla è impossibile con il caldo. Ciononostante ci provai. Presi la prima a destra, poi la seconda a sinistra, trovai una chiesa azzurra come il cielo e poi… e poi mi persi. Vagai per un paio d’ore cercando la strada per l’ostello e alla fine lo ritrovai sudato e assetato.
Poche erano le persone che incontrai per strada e spesso mi salutavano con un sorriso che contraccambiavo. Tutti erano molto rilassati, anche perché il caldo toglieva le forze. Penso fossero incuriosite dal fatto che un turista si trovasse in quella parte della città, senza meta.
Da Puerto Princesa andai a visitare il fiume sotterraneo a un paio d’ore di distanza. Impiegai un’intera giornata partecipando ad un tour organizzato. Mi resi conto quasi subito dell’errore. Non ero più in grado di unirmi ad un gruppo per una visita giuda. Già all’andata scalpitavo per andare da questa o quella parte, ero insofferente verso la guida, e non mi piaceva in miei compagni. Non potevo far altro che fare un mea culpa e ripromettermi di fare le cose a modo mio la prossima volta. Nonostante tutto, il fiume che si era scavato il proprio letto tra la roccia sotto terra fu un’esperienza interessante. Lo percorremmo su un battello a remi stando attenti alle stalattiti e stalagmiti che spuntavano dal fiume o scendevano dal soffitto. La cosa più pericolosa restavano gli escrementi di pipistrello che piovevano da sopra le nostre teste munite di elmetto.
Ritornammo tardi, quando la sera era già iniziata e mancai l’appuntamento clou del giorno: gara 3 della finale del campionato di basket filippino.
Non credevo che ci fosse una passione così forte per la pallacanestro nelle filippine. Ovunque trovai un canestro. Alla fermata degli autobus, in piena città, alle scuole, dietro al bar, nel cortile di casa. La maggior parte erano in legno, un po’ mal ridotti, ma servivano allo scopo. I terreni erano anche i più disparati. Non solo cemento, ma anche sabbia, pietra e erba. Insomma dove c’era un piccolo spazio sorgeva un canestro. E non serviva avere le scarpe adatte. Non tutti i ragazzini si posso permettere delle Nike o Adidas, nemmeno se Made in Philippines. E allora bastavano delle ciabatte, e se proprio non ci si sentiva a proprio agio, allora bastava togliersele e giocare a piedi nudi. Quando uno sport è passione, non importa come, ma si trova il modo di giocarci.
Presi uno scomodo minivan per andare a El Nido, la mia meta principale nelle Filippine. Il viaggio fu scomodo. Il minivan si inerpicava su per i tornanti attraversando i monti sull’unica strada in cemento con tratti di sterrato che collegava il centro dell’isola con il nord. Quando arrivai a El Nido le mie gambe esultarono e cominciarono a muoversi automaticamente in direzione del centro alla ricerca di un posto dove riposarsi all’ombra e al fresco di un ventilatore.