Flamenco cinese
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Jose alla chitarra ritmica, Jorge alla leading guitar e voce, Carlos basso e Aziz alle percussioni.
Pechino Guitar festival, parco Haidian. Sul palco quattro cinesi suonano flamenco, un flamenco cinese. Jorge ha i capelli lunghi e occhiali da sole anche se è buio quando inizia il loro concerto. Carlos è sulla sinistra, quasi si nasconde. Jose sta un passo dietro al cantante e ha dei capelli lunghissimi fino alle anche, ovviamente neri e lisci come tutti i cinesi. Aziz invece è seduto e indossa una maglietta con scritte arabe e ha una faccia medio orientale ma con gli occhi a mandorla adornata da un curato pizzetto, un mussulmano cinese.
Ovviamente questi non sono i veri nomi del quartetto. Sono tutti cinesi doc e hanno nomi cinesi, ma come ho appurato, i cinesi si danno nomi stranieri quando parlano un’altra lingua. Ho quindi conosciuto Jeff, Karen, Lucy, etc. perché parlavano inglese con me e forse non volevano che io storpiassi i loro nomi e non nascondo che mi ha aiutato molto a identificarli. Se avessi parlato francese o tedesco avrei incontrato Jaques, Pierre, Amelie, Guenter, Franz, Katerina, e magari c’è qualche cinese che parla italiano che si chiama Andrea.
Arrivai a Pechino da Xian in treno e mi scontrai con le solite difficoltà di comunicazione mentre cercavo la fermata dell’autobus per arrivare all’ostello. Chiedevo informazioni ai passanti su dove prendere il numero 834 e le risposte furono sempre le stesse da quattro settimane. Mi respingevano con un segno negativo della mano che non ho mai capito se volesse dire: non so; non capisco; lo so, ma non te lo voglio dire; no grazie; non faccio l’elemosina ai viaggiatori impreparati. A volte riuscivo a strappare delle indicazioni che dovevano essere sempre verificate, perché metà di esse erano incorrette.
Fortunatamente fui mandato dalla parte dove per lo meno c’erano degli autobus e dopo aver vagato da cartello a cartello mi accodai con Franta ad un’americana che sembrava sapere dove stesse andando. Insegnava inglese da un anno come molti degli anglofoni che incontrai nella terra di mezzo. Parlava cinese e fu eletta tacitamente a nostra guida a sua insaputa.
Dopo aver sbarcato il lunario all’ostello ci dirigemmo con la nostra guida che si atteggiava da saccente insegnante al mercatino dell’antiquariato. C’era un po’ di tutto. Cumoli enormi di vecchie cazzate che mi annoiarono immediatamente. Persino i venditori erano visibilmente poco eccitati dal loro lavoro. Alcuni di loro dormivano sui banconi e graziosamente li usammo come manichini per alcune foto.
Il secondo mercato che fui costretto a visitare fu il famigerato Silk Street Market, un palazzo di sei piani mangia turisti dove è possibile acquistare tutta la merce di marca a prezzi stracciati. Ovviamente sono copie. Questa non è Cina. O meglio è Cina per la parte che riguarda gli affari. Merce contraffate, venditori che cercano di vendere anche quello che non hanno, giovani ventenni che nonostante siano in possesso di un buon inglese, non lavorano in multinazionali o grosse aziende acquisendo perciò una posizione sociale più elevata e un benessere economica che molti sognano. Negoziare i prezzi era la cosa più divertente. A volte si partiva da 800 yuan per arrivare a 80 sapendo che il loro margine di guadagno era in ogni caso elevato.
Il ritmo imposto da Jose è coinvolgente. Fino ad ora i cinesi si erano limitati ad applaudire. Di solito non si lasciano trasportare manifestando le emozioni che la musica di provoca dentro, sotto la pelle, e ti fa muovere. Al massimo la testa ondeggiava di lato, e poi applausi che sembravano obbligati per far piacere ai musicisti. Ora invece vedo qualche braccia alzarsi, qualcuno saltare, al lato destro c’è pure qualcuno che balla. Sembra che questa musica riesca a toccare le corde giuste.
Il programma del primo giorno a Pechino prevedeva la visita alla Città Proibita. Uscimmo dall’ordinata e pulita metropolitana a piazza Tienanmen. Centinaia di turisti, principalmente cinesi, affollavano la soleggiata ma fredda piazza. Il vento tirava intenso e fastidioso e sinceramente non rimasi impressionato dagli enormi spiazzi. Attraversammo l’autostrada a cinque o più corsie che passa davanti al faccione paterno di Mao e ci dirigemmo verso la Città Proibita in processione assieme a comitive di turisti.
Davanti all’entrata ci fermammo a comperare due pezzi di ananas. La vecchietta ce li diede per due yuan ciascuno e mentre li gustavamo un gruppetto di cinesi ne acquistò un paio. Rimasi lì per vedere a quanto li avrebbe venduti. Sembrava a due yuan, ma c’era qualcosa che non andava perché i turisti rimanevano lì in attesa di qualcosa. La vecchietta fece segno di aspettare. Voleva che noi andassimo via, ma eravamo decisi a guastare qualsiasi festa stesse accadendo in quel momento. La venditrice allora si spostò di due metri, come se bastassero a dividerci da noi, e diede ai cinesi altro ananas, il che voleva dire che il prezzo era un yuan. “Ahhhhhhhhhhh, ci hai imbrogliato.” Cominciammo a gridare, tra la risata e l’incazzatura, contro la vecchietta. Erano sempre così i commercianti o venditori. Dall’inizio del nostro viaggio tutti cercavano in qualche modo di fregarci, riuscendoci ogni volta. Stavolta volevamo dimostrare che non eravamo mucche bianche da mungere. Per farci star zitti ricevemmo un altro pezzo d’ananas che ci rendeva uguali ai cinesi. Almeno per una volta.
La visita ai palazzi della Città Proibita fu lunga e tediosa. Probabilmente le mie aspettative erano elevate e mi ritrovai a marciare tra porte e palazzi che mi sembravano tutti uguali e che non mi parlavano.
Appena uscimmo attraversammo gli hutong, vicoli stretti con case basse e tradizionali in contrapposizione ai palazzoni moderni e lustri che avevamo appena lasciato alle nostre spalle. Anche in quelle viuzze sfrecciavano biciclette e silenziosissimi scooter elettrici pericolosissimi perché non li sentivi arrivare e te li trovavi di fianco al ginocchio quando poteva essere troppo tardi.
Jorge ha una voce melodica. Qualcuno tra il pubblico canta con lui, ritmi latini in La cinese. C’è poca birra, e soprattutto poca gente per essere un festival rock in una città da venti milioni di abitanti. Per la Cina i festival rock sono una cosa relativamente recente, e inquadrati come sono, non si lasciano trasportare dalla musica scatenandosi in balli, urla o bevendo e fumando di tutto. Il paragone con piccoli festival sparsi in giro per l’Europa sarebbe impietoso, ma sono felice di essere qui, anche se la birra è calda e viene venduta da una sola bancarella. Avevo bisogno di musica, batteria e chitarre urlanti e casualmente eccola qui davanti a me. Un festival rock dove ci sono band di ragazzini urlanti speed metal, ragazze vestite da bambole che suonano punk, rockettari dai capelli lunghi, copie di musica anni ’70, e ora davanti a me un gruppo che suona musica importata da un novello Marco Polo dall’Europa. Quasi ci siamo, un buon tentativo che mi godo appieno.
Dopo aver lottato per il visto per la Mongolia, partimmo di corsa per la Grande Muraglia. Con informazioni parziali riuscimmo a raggiungere un punto meno frequentato e cominciammo di corsa la nostra attraversata. Non c’era nessuno con noi. L’immenso muro era tutto per noi, ci aspettava da centinaia d’anni. Entrammo in un punto e non si poteva immaginare una fine ne’ a destra, ne’ a sinistra. Proseguiva all’infinito perdendosi nell’orizzonte dopo sinuose curve e aspre arrampicate su impervie montagne. A nord la Mongolia, le orde barbariche, i banditi, a Sud Pechino, la civiltà, la ricchezza, la cultura. Era così allora, e sembra quasi voglia comunicare che ancora oggi il Sud è meglio del Nord e non bisogna mescolare i due mondi.
Sarebbe stato bello passare la notte lì, in una torretta ancora in piedi per metà che guarda una vuota e verde catena montuosa davanti a sé verso fuori, in direzione Mongolia. Ai suoi lati il muro prosegue sonnecchiando e stanco. Alcune parti sono molto ripide con scalini per giganti, pietre lisce e scivolose, parapetti mancanti, e in un paio di punti pure il muro non mi diede l’impressione di solidità e sicurezza.
Anche lì trovammo dei vecchietti che ci inseguivano ansimando cercando di venderci souvenir o delle bevande. Per fortuna bastava essere chiari e fermi e ci lasciavano godere lo spettacolo della natura attorno a noi in silenzio e solitudine.
Picchia Aziz, picchia più forte. Fai vedere che sei orgoglioso di essere mussulmano in Cina. Mostraci che la musica non ha confini, non ha religioni, non ha razze, non ha partiti, non ha ideologie politiche, non ha caste ne’ scale sociali. Falli ballare questi cinesi, falli muovere. Continua così, aumenta il ritmo, dagli vita, donagli energia. E’ un delirio. Gli spettatori si spingono fin sotto al palco. Si balla e si salta. Sono un centinaio. Pochi, ma almeno loro non si vergognano di lasciarsi prendere per mano, di farsi perforare dalle note e dai colpi di Aziz che non percuote il suo tamburo ma prende a schiaffi le anime dei giovani cinesi.
L’ultima palla. Nove a nove. Chi segna vince. Tra i grattacieli del centro di Pechino eravamo in tre europei, io, Franta e Tom, un ubriaco inglese che insegnava qui come tanti europei in cerca di qualcosa di nuovo in giro per il mondo. Davanti a noi tre ragazzi cinesi di buona tecnica e agonismo. Europa contro Cina. I campi da basket si sprecano in Cina. Da quando ci sono giocatori cinesi in NBA è scoppiata la basket mania, un sogno di grandezza, una speranza di gloria per i ragazzi. E noi eravamo lì per dimostrargli che la loro strada era ancora lunga.
Giocavo da più di due ore con scarpe da trekking che minacciavano le mie caviglie ad ogni passo incrociato. Quelli che avevamo davanti a noi erano buoni giocatori, una decina d’anni più giovani di me ed erano forze fresche. Ma non c’era scampo per loro. Assist, passaggi sotto alle gambe, rimbalzi, tiri da fuori ed entrate rovesciate. Il nostro repertorio aveva pure qualche tiro da tre. Io e Franta eravamo leggermente più alti, ma le nostre scarpe, l’età e l’alcol del giorno prima ci portava sotto al loro livello fisicamente. Tirammo fuori tutta la nostra esperienza e tecnica, poca a dir la verità. E allora fu l’orgoglio a decidere. Finta, passo incrociato, mi buttai dentro. Franta tagliò sotto quando l’aiuto chiuse su di me. Passaggio tra mani che si chiudevano a tenaglia e con un movimento da ballerina di samba Franta appoggia al tabellone come un cameriere con le ordinazioni. Vittoria. L’Europa è salva, almeno per un po’.
Nel nostro ostello c’era un ucraino che suonava il violino in una band locale di “romantic death metal” come lui lo definì. Mi informò che c’era un festival rock in città dove avrebbe suonato. Mi feci dare le coordinate. Non potevo certo mancare di vedere i cinesi ad un festival e soprattutto ero in completa astinenza da musica rock dal vivo e cominciavo a dare segni di pazzia.
Non mi aspettavo chissà cosa da Pechino, ma il festival era veramente poca cosa nonostante i tre palchi allestiti all’interno di un bel parco curato che aveva pure un laghetto. Aquiloni multi colori e dalle forme diverse e bizzarre volavano alti nel cielo in una giornata soleggiata e calda. Non vedevo l’ora di bere birra fresca e mangiare salsicce alla griglia al ritmo duro della batteria rock. La birra era calda e gli hot dog erano di plastica. Non ero a casa, la mia era una illusione rock.
C’era poca gente le ragazze andavano in giro per il parco con minigonne e tacchi come di consuetudine attirando il mio sguardo come una calamita. Incredibilmente non rimanevano mai incastrate con i tacchi sull’erba. Avevano sempre l’eleganza sexy e un po’ volgare che vedevo tutti i giorni passeggiando per la città. Era una vista piacevole in ogni caso.
La musica spesso era una copia di quella europea che è una copia di quella americana, ma aveva un tocco di cinese, non fosse altro per la lingua usata. Alcuni gruppi usavano strumenti poco convenzionali alla musica rock, come flauti, tamburi o chitarre che sembravano provenire direttamente dall’epoca di Gengis Khan.
L’ultima band che suonò fu una sorpresa, sarebbe stato un certo di flamenco misto latino. C’erano quattro ragazzi due dei quali dai capelli lunghi e uno di chiara fede mussulmana che sfoggiava una maglietta blu con una scritta bianca in arabo.
E’ una piacevole musica questo flamenco cinese. E’ stata un’altra sorpresa di questa Cina indecifrabile. Jorge chiude con uno strano accordo in La. Mi sembra un La accentato. Là, vai più in là Andrea, vai più lontano, vivi il mondo e lascia che lui viva te. Gioisci con lui. Cerca quello che non hai trovato finora. Vivi più che puoi e fallo appieno. Torna, torna a casa. Chissà se troverai mai la tua casa.
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