Giorno 9 Dole - Machermo

Alla mattina l’acqua del bagno è ancora ghiacciata. Ho avuto modo di vedere il progresso del congelamento durante la notte almeno un paio di volte.

Dalla sala da pranzo dove faccio colazione con pane tibetano, che altro non è che una specie di frittella gigante, si vedo gli yak già svegli che brucano l’erba. Un paio di giovani yak corrono forse per scaldarsi nonostante la spessa pelliccia. La temperatura notturna è scesa a meno 6.

La nostra meta odierna è Machermo a 4410 metri. Un piccolo salto per 2-3 ore di camminata.
Partiamo e già intuisco che sarà una giornata non divertente per me. Il percorso è coperto da un paio di centimetri di neve su un terreno che non è ghiacciato, ma indurito. Ciò significa che appena il sole scalderà l’aria con la temperatura che si alzerà troverò fango.

Il tragitto è similare alla camminata di ieri. Costeggiamo la montagna passando alcuni insediamenti senza turisti o abitanti salutando alcuni locali con un “Namaste!” sempre ricambiato. L’abisso a volte si riduce, ma rimane sempre lì, inquietante.

L’unica cosa che è totalmente cambiata è la vegetazione. Ora non ci sono più alberi. Solo arbusti e cespugli divorati dagli yak che si arrampicano di corsa su per la montagna leggeri come una gazzella.
Mentre li osservo salire e scendere tra la neve per quell’impervia salita, io comincio a sentire l’odore della mia paura. Oramai non distinguo più tra fango e cacca di yak. Scendo un tratto in prossimità di Machermo molto molto lentamente. Sono praticamente fermo. Penso troppo ad ogni passo e mi muovo di pochi centimetri alla volta. Ania e Jindra mi accompagnano dandomi suggerimenti. I nervi sono tesi, ma con il loro conforto mi sciolgo e scendo l’ultimo pezzo disinvolto. Penso che la prossima volta andrà meglio.

In un momento di pausa su un tratto pianeggiante e senza neve apro lo zaino per prendere un po’ di cioccolata da dividere con gli altri. Apro la tasca interna e rimango paralizzato. Il giorno prima avevo messo la cioccolata lì dentro e non mi ero accorto che c’era dell’altro. Guardo bene. Non ci credo. Guardo ancora e penso che l’altitudine mi stia facendo brutti scherzi. Non credo ai miei occhi. Guardo per la terza volta e a questo punto devo constatare la verità che simboleggia la mia stupidità
Dentro la tasca interno della parte superiore del mio zaino ci sono un milione di Rial iraniani! A Esfahan, tre mesi fa, avevo passato una giornata di merda convinto di aver perso quei soldi. Sono l’equivalente di cento dollari e li avevo cercati dappertutto, o almeno dove io credevo fosse dappertutto. Avevo aperto ogni singola tasca del mio zaino e rovistato due volte tra i vestiti. Avevo aperto tutte le scatole delle medicine. Avevo cercato ovunque due o tre volte, eccetto che in quella tasca.
Ora, a oltre 4000 metri, l’ho riscoperta.

Franta mi diceva: “Non preoccuparti. Probabilmente salteranno fuori quando saranno in Cina e non potremmo utilizzarli.” Mai profezia fu così vicina alla verità. Lo chiamo e gli dico di guardare nel mio zaino. All’inizio pensa ci sia un’animale e procede cautamente. Poi trova i soldi e scoppiamo a ridere. In Nepal sarà difficile cambiare soldi iraniani. Vuol forse dire che devo tornare in Iran?
Siamo arrivati a 4410! Manca poco e superiamo il Monte Bianco! Dopo aver pranzato con Dal Bhat e tè mi sento stanco e il mal di testa sale. Sale a tutti noi, chi più chi meno. Continuiamo a bere tè o acqua del sindaco, come un’amica d’università chiamava l’acqua di rubinetto, purificata dal cloro che ci portavamo dietro. A tutti passa eccetto che a Franta.

Franta era già stato sull’Himalaya tre anni fa e durante quel viaggio aveva sofferto notevolmente l’altitudine, anche se non in maniera grave. Era stato male più o meno allo stesso livello in cui ci troviamo ora, e anche questa volta il malessere lo assale. Franta ha una predisposizione a tirarsele addosso. Spesso scherziamo per la sua negatività e per il suo pessimismo. Dall’inizio del viaggio continuava a parlare di quanto è pericoloso il mal d’alta quota elencandoci tutti i sintomi e solitamente aggiungeva drammaticità e un’aria di ineluttabile. L’uccello del malaugurio ha cantato male per se stesso e verso sera viene colpito da un fortissimo mal di testa. Ci preoccupiamo e gli stiamo vicino costringendolo a bere molta acqua, a rilassarsi e ad andare a riposarsi. Non c’è altro da fare. Se il dolore persiste fino a domani dovremmo aspettare un altro giorno, e se non passa allora dovremmo scendere ad una quota inferiore. Non c’è altra cura.

Franta ha ragione a proposito della pericolosità dell’alta quota. E tutte le guide e le persone in Himalaya avvisano di stare molto attenti ai primi sintomi. Di solito colpisce quando si sale troppo in alto e troppo velocemente. Il fisico di una persona che vive al livello del mare, non è abituato alla differenza della quantità d’ossigeno nell’aria, che a 5500 arriva fino al 50% perciò meno ossigeno raggiunge il cervello con effetti assai sgradevoli, se non letali. Si può evitare salendo con calma e lentamente. Per questo per salire a Gokyo ci impiegheremo diversi giorni, mentre per scendere a Namche potremmo correre la distanza in solo due giorni.

Per fortuna dopo qualche ora prima che ci mettessimo a dormire tutti quanti, il mal di testa di Franta passa all’improvviso. Una volta che il mal di testa passa il corpo è abituato e pronto per salire. Bene, domani continueremo fin sotto la meta e soprattutto Franta sta bene.