Giorno 3 Namche Bazar-Thame-Namche Bazar

Ieri mi hanno detto che bisogna avere almeno due giorni di acclimatizzazione a Namche perché il corpo si abitui all’alta quota oltre i 3000 metri. Altrimenti si rischi che la testa scoppi, il che non sembra piacevole.

Ho contato di essere tra uno o tre giorni davanti ai miei compagni di viaggio. Non avendo ricevuto nessuna email fino ad ora, deduco che ho due o tre giorni di vantaggio da sfruttare per abituarmi all’altitudine e fare un po’ di moto. Quando arriveranno dovranno fermarsi pure loro per due giorni, ma avranno chilometri di sali e scendi sulle gambe e sarà difficile mantenere il loro ritmo.

Invece di rimanere a gironzolare per la carina, ma piccola Namche, la giapponese di ieri sera e la sua guida mi hanno detto di farmi un giro fino a Thame. Si tratta di una passeggiata di tre ore, massimo tre ore e mezza ad andare e lo stesso a ritornare. Si arriva fino a 3800 metri circa e poi si ritorna ai 3445 metri di Namche. Dicono “cammina alto e dormi basso” riferito all’altitudine. Decido di seguire il consiglio e senza guida, ne’ mappa parto alla mattina presto dopo una ricca “simple breakfast”: due uova, patate al forno, pane tostato con chili di marmellata e una supertazzona di nescafè nero.

“Da che parte per Thame?” chiedo alla Buddha Lodge dove soggiorno.
“Da quella parte.” E mi indicano la sinistra del villaggio oltre un piccolo monastero. “Ma non prendere la strada bassa. Devi seguire la parte alta. Poi al monastero devi girare ancora a sinistra.”

Convinto di seguire le indicazioni, dopo circa 20 minuti di camminata incontro un’anima pia che mi fa notare che sto andando a fondo valle dove solo i pastori portano gli Yak a pascolare. Capisco con uno sforzo mentale non indifferente che sono sulla strada sbagliata. Devo tornare indietro e ricominciare.

Stavolta prendo la strada giusta e vado. La strada mi sembra facile. Se tutto il trekking sarà così allora sono già pronto. Cammina per un’ora e faccio foto. Aggiungo un’altra ora, dopo aver imboccato un bivio sbagliato ed essere ritornato sui miei passi, e raggiungo Thamo. Incontro dei militari che mi indicano la strada giusta per Thame e la imbocco scattando foto alle cime innevate, alle cascate, ai ponti, ai ruscelli, ai portatori e ai villaggi che man mano incontro. Non vedo turisti. Già so che non è stagione.

Dopo un po’ incontro una simpatica signora che mi supera. Si volta. Si ferma. Mi fermo.
“Namaste!” faccio io.
“Namaste.” Risponde lei. “Dove vai?”
“A Thame. Dovrei essere lì in un’ora. Poi torno a Namche in giornata.”
“Thame? Allora devi andare da questa parte. Non dove stai andando tu.”
“Oh…” e questa e la terza volta che sbaglio strada! “Grazie. Posso seguirLa?”
E mi accodo anche se faccio fatica a tenerle il passo.

Dopo essere scesi al fiume (scendere??? Ma non dovevo salire di 400 metri???) mi indica di prendere il sentiero a destra. A sinistra si va’ per la centrale idroelettrica costruita con l’aiuto degli austriaci per supportare lo sviluppo dell’area nell’ambito di un piano eco sostenibile di impatto ambientale.

Non mi interessano le centrali idroelettriche austriache e giro a destra dove il sentiero comincia a salire. La salita si dimostra impervia e dura. Mi fermo spesso. Ogni decina di metri di dislivello faccio un paio di esercizi di iperventilazione per metter ossigeno dentro ai polmoni. A metà strada incontro altre due anziane con un cesto pieno sulle loro spalle. Faccio capire che vado a Thame. Mi fanno segno che è la strada giusta da seguire.

Non posso farmi distanziare da due anziane sotto che trasportano probabilmente una ventina di chili a testa. Attivo la riserva d’orgoglio e salgo agile come un caprone di montagna. Le distanzio facilmente e mi sento fiero. Ogni tanto guardo indietro per assicurarmi che la distanza aumenti. Arrivo primo in cima alla montagna dove il sentiero piega e si trasforma in una dolce salita. Mi metto dove non mi vedono e tiro il fiato ansimando e piegato in due.

Mi guardo davanti. Ho due possibilità ora. Proseguo dritto e vado fino sopra la cima e scollino. Oppure giro a destra e aggiro l’ostacolo. Non so dove andare. Non posso aspettare le vecchiette ora che sono entrato nella modalità “orgoglione”. Vado a destra seguendo delle cacche di Yak. Dopo venti minuti mi accorgo che la strada è sbagliata e porta a un sentiero simile ad un precipizio.

Qualcuno lassù mi ha donato delle qualità, ma non ha certo abbondato con il senso dell’orientamento.
Torno per la quarta volta sui miei passi e le vecchiette sono lì ad aspettarmi. Ridono le due streghe. Mi fanno cenno che dovevo andare dritto. “Grazie! Ora lo so, non mi serve il vostro aiuto!” le dico in italiano. Sono distrutto fisicamente e moralmente. E’ l’una e ho fame. Sono quattro ore che giro e non vedo Thame. Non riuscirò mai a tornare indietro per tempo.

Arrivo in cima al monte e mi trovo il passaggio sbarrato dal filo spinato.
“Maledette streghe! Mi hanno giocato anche stavolta! Al rogo!”

Guardando bene scorgo vicino ad una roccia che tocca il filo spinato una scala per oltrepassare il recinto. Seguo con lo sguardo il cammino davanti a me e vedo arriva fino a lì. “Così è.” Comincio a parlare a voce alto. Sono all’orlo della disperazione.

Scavalco con difficoltà il filo spinato stando attento a non causare danno alle parti più delicate del mio corpo. Continuo su questo sentiero senza cacche di yak. Trovo la fine del recinto con un’altra scala. Mi sembra una quest di un gioco di ruolo. Scavalco e finalmente: “Thame!”

Vorrei correre verso lo yak che mi si fa incontro e abbracciarlo tanto sono felice. Invece lo fotografo e di corsa mi dirigo verso il primo ristorante.

Ordino subito un Dal Bhat. E mi guardo intorno. C’è una vista bellissima di Ama Dablam con i suoi 6814 metri e scorgo nella sala da pranzo un gagliardetto. Mi avvicino: San Giovanni Lupatoto. Se non mi sbaglio Matteo, chiamato anche Bonafiga, vien da lì.

Chiedo alla padrona di casa se di lì passano molti italiani indicando il gagliardetto.
“No,” risponde lei “solo un gruppo che mio figlio ha accompagnato l’anno scorso.”
Entra suo figlio col cibo.
“Ah, sei tu che hai accompagnato gli italiani l’anno scorso.”
“No,” risponde lui “è l’altro mio fratello. Io studio per diventare monaco.”
“Oh…” continuo io, in un misto tra ammirazione e compatimento per la sorte. “Da quanto tempo studi?” cerco di mascherare quello che veramente penso e cioè che mi dispiace per lui povero sfigato.
“Studio da otto anni.”
“Interessante. E quanti anni hai?”
“Venti”
“Interessante. E quanti anni ci vogliono per diventare monaco?”
“Circa venti.”
“Interess… Venti???”

Comincio a mangiare che si raffredda.

Prendo la strada di ritorno, stavolta quella corretta, e sono a Namche dopo tre ore. Sono stanco. Tempo di mangiare, chiacchierare con la giapponese che parte domani e con Ramko, un olandese infermiere appena arrivato.