Giorno 11 Gokyo - Gokyo Ri - Machermo

Ci lanciamo all’assalto dei 600 metri di dislivello che ci separano dai 5360 metri della vetta in ovvio ritardo. Partiamo alle 4.50 con le lampade sulla fronte indossando tutti i vestiti che abbiamo per proteggerci dal freddo. Dovrebbe essere una passeggiata. Lo fanno tutti senza difficoltà, o per lo meno non te lo vengo a dire. Siamo escursionisti alle prime armi e anche se la cima non è una montagna da scalatori, per noi è pure sempre impegnativa e inoltre non siamo stati mai così in alto e non siamo abituati a respirare ossigeno quasi dimezzato.

Sono emozionato e sicuro di arrivare lassù.

Superiamo il ruscello che sfocia nel lago saltando su dei massi. Cominciamo la salita in gruppo. Jindra fa da apri strada come al solito. Se dovessi dire chi arriverà per primo, non ho dubbi, Jindra. E’ di gran lunga quello più preparato fisicamente tra di noi. Io mi candido per un posto nel gruppone.

Dopo mezz’ora ci rendiamo subito conto che non sarà così facile arrivare lassù. Io, Ania e Marcela abbiamo già dei problemi col fiato. Facciamo una piccola pausa e lasciamo andare avanti Jindra e Franta. Loro hanno una possibilità di vedere l’alba, noi sicuramente no.

Penso di aver cominciato la salita troppo velocemente. Avrei dovuto usare un passo più lento. Mi propongo di proseguire lentamente, ma continuamente. Dopo aver bevuto e ripreso fiato riprendiamo insieme a Kul, l’unico dei portatori che ci segue in caso di bisogno.

Illusione. Nell’oscurità dopo dieci metri di salita comincio ancora a far fatica a respirare. Cerco un ritmo cadenzato,ma non ce la faccio a trovarlo. Mi fermo spesso. Marcela prosegue lenta, ma senza pause. Sembra non abbia problemi. Ania, invece, non ce la fa. Dopo un breve colloquio decidiamo di proseguire mentre lei rimmarrà indietro con Kul che le porterà lo zaino con le poche cose che si è portata dietro per oggi. In alto, vedo le luci di Jindra e Franta che proseguono senza intoppi.
Siamo gli unici sul pendio questa notte.

Mi aggancio a Marcela e proseguiamo vicini anche se con ritmo diverso. Sono incappucciato e una spessa sciarpa mi copre la bocca e il naso per proteggermi dall’aria fredda. Temevo che l’aria ghiacciata mi avrebbe spaccato i polmoni. Di solito sono sensibile a questo tipo di freddo, almeno in città. Quassù questo non è un problema. Inspirare, espirare. Respiro forte dentro la sciarpa e il rumore riempie la mia mente. Non è una mattinata di silenzio per me.

Mi consola il fatto che ho appena superato il Monte Bianco.

In una delle innumerevoli pause mi accorgo che la bottiglia d’acqua e vitamine si sta ghiacciando. Bevo lentamente e frantumo i pezzetti di ghiaccio che mi entrano in bocca. Ho le dita delle mani ghiacciate nonostante le due paia di guanti che indosso. Cerco di scaldarle immaginando di suonare il pianoforte movendo freneticamente le dita. Strappo un sorriso a Marcela. Ania ha ripreso a salire. Jindra e Franta quasi non si vedono più.

Entra di scena la luce.

Marcela ha freddo per tutto il corpo. Le dico di continuare a salire e che tra poco il sole ci scalderà e saliremo in maniche corte. Ecco un altro sorriso. “Siamo quasi arrivati”. Cerco di motivarla per salire insieme. Se fossi stanco non vorrei essere lasciato solo su di un roccia.

Continuiamo sempre più lentamente. Mi manca il fiato. A volte sembra di soffocare come in un attacco degli innumerevoli attacchi di asma che mi colpivano da ragazzo. Ma non sono impaurito e soprattutto non penso mai di mollare e tornare giù. Ci impiegheremo tutta la giornata, ma saliremo. Sono una fighetta anche nella salita, che ci devo fare. Qualcuno lassù mi ha donato delle qualità, ma non ha certo abbondato con la capacità polmonare.

Il sole sorge. Scatto le foto di rito e riprendo. Noto che persino fare una foto richiede uno sforzo. Nell’attimo in cui sto per scattare trattengo leggermente il fiato e i miei polmoni me lo fanno notare subito. Chiedo scusa e riparto.

Marcela si ferma sempre più spesso.”Siamo quasi arrivati”. E’ la quinta volta che glielo dico a distanza di un quarto d’ora l’una dall’altra. Non ho la più pallida idea di quanto manchi alla meta. Strappo un altro sorriso. Ania sta avanzando. Sta facendo uno sforzo enorme. La sua nuova strategia è quella di fare cinquanta passi e poi di piegarsi in due per respirare profondamente. Ognuno ha il suo modo di salire e sembra che ora funzioni. Kul le sta sempre vicino.

Improvvisamente vedo qualcuno scendere. Cosa? E’ un inglese con la sua guida. Ai piedi hanno dei ramponi per non scivolare. Mi chiedo se avessero passato la notte lassù. Non eravamo i primi. Ma non era una gara a chi arriva prima la nostra. Non lo è mai stata. Per noi l’importante era esserci. E c’eravamo, quasi.

Marcela praticamente si ferma. “Siamo quasi arrivati”. Stavolta non funziona. Ania ci raggiunge. Facciamo un’altra trentina di metri in altezza e finalmente li vediamo, Jindra e Franta e le bandiere. Quando si vede la cima ti vien voglia di correre. Comincio un passo troppo veloce per me e dopo cinque metri in altezza mi fermo e rallento. Marcela lascia il suo piccolo zaino dov’è e viene su. “Siamo quasi arrivati”. Stavolta è vero!

Dopo tre ore e qualcosa taglio il traguardo sfatto. Le gambe sono ok, è il fiato che non esiste. Ogni piccolo movimento è un respiro profondo. Reputo la salita una delle esperienze peggiori delle mia vita. Uno sforzo tremendo. Spero nessuno mi chieda ora se voglio salire su un’altra cima in futuro.
Ma sono a 5360 metri! L’ossigeno arriva al cervello come dovrebbe ora e mi guardo attorno.

STUPENDO!

Siamo circondati dalla neve sulla cima che è tutta per noi. Preghiere buddiste sotto forma di bandiere che trasmettono il messaggio al cielo ogni volta che sbattono al vento sono la cornice perfetta.
Il Bestione fuma che è uno spettacolo. E’ la prima panoramica sull’Everest e le cime che lo circondano e rimango senza fiato. Quassù è una cartolina. Il Cho Oyu, altri 8000 metri di splendore, è sul lato opposto dell’Everest. Anche lui segna il confine tra Nepal e Tibet. Là sotto c’è Gokyo col suo lago ghiacciato e mi accorgo solo ora che si trova sotto una morena. A un centinaio di metri sopra Gokyo passa un ghiacciaio. E’ la prima volta che ne vedo uno e rimango folgorato. Ghiaccio che si muove, ghiaccio che si crea un letto, ghiaccio irresistibile che avanza, lento. La sua potenza mi impressiona di più della maestosità dell’Innominato che oggi sta fumando. La mia fantasia corre indietro a milioni di anni fa a quando il ghiacciaio creava la strada che vedo oggi, a quando le morene non erano ancora così alte. Ho deciso che mi piacciano i ghiacciai.

5360 metri. Mi siedo a mi godo il momento in silenzio e in solitudine con me stesso. Non è impossibile arrivarci, basta volerlo, e io l’ho voluto. Sono contento e soddisfatto di me stesso. Vorrei battermi una mano sulla spalla. “Bel lavoro, bravo”. Un po’ di auto elogio ci vuole per il mio ego che s’era ridotto ad uno straccio per i pavimenti durante la salita.

Jindra e Franta erano saliti in due ore e ora devono scendere perché cominciano ad avere mal di testa. Marcela li segue a distanza. Io e Ania restiamo un altro po’ seduti a guardare le montagne e a imprimerle dentro di noi, ciascuno in modo proprio, per se stesso. In silenzio. Le parole non servono. Rovinerebbero un quadro perfetto.

Prima di scendere faccio a tempo a notare il gagliardetto della Lucchese appeso insieme alle bandiere-preghiera. Salutiamo chi sta salendo ora con la luce del sole. Sono escursionisti più preparati di noi che abbiamo incontrato nella lodge e durante la discesa scambiamo due parole con altri avventurieri con cui abbiamo condiviso le serata attorno alla stufa nelle sale da pranzo delle lodge dei villaggi lungo il tragitto.

Arriviamo a Gokyo e siamo tutti soddisfatti. Siamo stanchi, ma felici e facciamo colazione e pranzo allo stesso tempo.

Ci crogioliamo al sole, ma non per molto. La nostra giornata non è finita. Ora dobbiamo tornare a Machermo per non perdere tempo prezioso.

E’ quasi l’una quando lasciamo Gokyo e siamo un po’ preoccupati per il tempo. Solitamente le nuvole già cominciano a salire nel primo pomeriggio. Speriamo bene.

Partiamo con passo accelerato. Stavolta non sono in coda al gruppo. So che ci sono alcuni tratti fangosi più avanti e cerco di guadagnare tempo perché so che rallenterò il gruppo più avanti.
Mi sembra che la discesa mi sia congeniale. Ho un buon ritmo e scendo senza problemi. Marcela è molto provata dalla giornata, ma avanziamo tutti insieme. Il cielo è diventato grigio, ma sembra stabile. Non c’è da preoccuparsi.

Il tratto quasi pianeggiante col ruscello ghiacciato dove mi ero fermato per una pausa di riflessione il giorno prima è ora, dopo una giornata di sole intenso, completamente asciutto! La neve è scomparsa e il rigagnolo s’è dimostrato essere ora solo una striscia di fango. Sono passate poco più di 24 ore e sembra di seguire un altro percorso. Sotto i laghi di Gokyo la neve si è per la maggior parte sciolta e in prossimità di Machermo siamo rallentati da una zona fangosa.

Ci fermiamo alla lodge dove abbiamo soggiornato all’andata. Siamo provati, ma felici e orgogliosi per quello che abbiamo fatto oggi. E’ stato poco, ma per noi, oggi, vuol dire molto.

Chiamiamo Mister Kul a Kathmandu per avere notizie del viaggio in Tibet. Siccome non c’è nulla di nuovo a riguardo e il viaggio è ancora in stand by fino a che il confine non viene aperto, decidiamo con Franta di aspettare quassù, tra le montagne. Chiediamo a Mister Kul se può prolungarci il visto per il Nepal che scade a breve così potremmo rimanere altre due settimane quassù e scendere a piedi fino a Jiri. Purtoppo non sembra sia possibile.

Franta studia la cartina e alla sera raggiungiamo questo accordo: andremo a Chhukung Ri passando per il tragitto che sembra molto ripido tra Portse e Pangboche. Dopo di che andremo al campo base di Sua Altezza e a Kala Pattar. Toccheremo quattro volte i 5000 metri e avremmo tempo di tornare a Kathmandu prima che il visto scada. Poi da lì si vedrà. Il piano mi entusiasma anche in queste condizioni di estrema stanchezza. Forse è il successo di oggi e il fatto che voglio provare a salire senza tutto quell’affanno. Sono dentro al 100%.

Non abbiamo nessun giorno di margine. Se qualcosa va storto una delle mete sarà compromessa. L’altra cosa negativa è che non potremmo festeggiare a dovere con Ania, Jindra e Marcela. Dovremo aspettare un paio d’anni, quando torneremo a casa…

In ogni caso stanotte dormo soddisfatto.