Giorno 0
Eccomi sveglio con due paste al cioccolato divorate in pochi minuti.
Corro giù dalle scale e mi rendo conto che ieri mi hanno dato solo due tagliandi per due borse da lasciare in albergo, ma io ne ho tre! Scrivo una simpatica letterina e la lascio alla reception dove non c’è nessuno. Peccato sarei potuto andare via senza pagare…
Mi metto d’accordo per 250 rupie per un passaggio all’aeroporto.
Fa ancora buio, ma c’è già gente che va in giro per una Kathmandu addormentata e infreddolita trasportando non so bene cosa senza illuminazione. Eh certo, penso fra me e me, se durante il giorno tagliano la corrente, figurarsi alla mattina presto! I fari del taxi illuminano persone che vanno al lavoro e un paio di atleti che cercando di evitare i fumi di scarico delle macchina diurne correndo di notte lungo le arterie principali.
Il taxi mi lascia all’entrata dell’aeroporto e mi metto in coda assieme ad altri escursionisti dagli zaini strapieni e più carichi del mio e tra gente locale che sembra stia traslocando e invece sta solo trasportando a casa degli acquisti fatti in città.
L’aeroporto di Kathmandu sembra una piccola stazione degl’autobus dimenticata. L’elettronica sembra non abbia fatto ancora in tempo ad atterrare e i soli computer che vedo sono ai check in aperti, che sono metà di quelli disponibili. C’è un bilancione con una lancetta che indica il peso dei bagagli. Quelli che secondo me stavano traslocando hanno troppi bagagli, ma si cerca in ogni caso di pesarli tutti in una volta sfidando le leggi fisiche d’equilibrio tra le forze.
In qualche modo capisco che il mio aereo è pronto e prendendo un autobus navetta mi trovo davanti ad un bielica con circa 16 posti. Due file da un posto vicino al finestrino. Mi devo ingobbire per poter avanzare e sedermi altrimenti rischio di sfondare la carlinga con una testata. In ogni caso devo fare i complimenti al dipartimento di selezione del personale della compagnia aerea. Le hostess sono molto professionali e disponibili, mi fanno sedere sul lato sinistro così posso godermi la vista dell’Annapurna, mi avvisano quando passiamo le passiamo accanto perché hanno evidentemente capito che non sono un alpinista e non so distinguere una montagna dall’altra. Oltre a tutto questo indossano un bel completo elegante di color verde con gonna molto lunga che sfiora il suolo e sono immancabilmente di bel aspetto.
Mi metto il cotone nelle orecchie che le gentili hostess mi hanno dato per attutire il frastuono delle eliche, ma serve a poco.
Passiamo sopra Kathmandu e la valle circostante. Il sole è appena sorto e riesco a vedere cosa c’è la sotto. Si tratta di case su case, qualche industria con delle alte ciminiere che immergono Kathmandu nello smog, o in una misteriosa foschia, a scelta. Poi il paesaggio cambia. Diventa verde. Verde coltivazione. La terra comincia ad alzarsi e terrazzamenti riempiono le colline che man mano s’inerpicano fino a diventare montagne e a non sopportare più il tentativo dell’uomo di farle piane per sfruttarle. Terrazze per le coltivazioni fino alle prime cime. Questo è quello che si vede dall’alto. Non ci sono alberi.
Non so cosa rispondermi quando faccio osservare a me stesso che le popolazioni sottostanti hanno il diritto e dovere di coltivare per sopravvivere e perciò di creare terrazzamenti contro la terra ostile, ma che allo stesso tempo, questo sforzo e caparbietà incredibile e da ammirare della povera gente ha eliminato tutti gli alberi che erano lì naturalmente da centinaia d’anni. Sono colpito da un flashback alla mente e vedo le cime delle colline di Kerala, in India, coltivate ad piante di tè. I cespugli di tè hanno soppiantato gli alberi a Kerala. E pensare che in India il tè è stato introdotto dagli inglesi durante la loro dominazione. Gli indiani non avevano la più pallida idea di cosa fosse il tè, evidentemente non hanno potuto resistere al fascino di fermare tutto e fare una pausa tè al pomeriggio. Tradizione che viene riflessa pure nello sport nazionale, il cricket, dove i giocatori si fermano per una tazza di tè durante la partita. Chissà se si potesse introdurre la pausa caffè nelle partite di calcio nella nostra terra…
Le montagne si fanno via via più impervie e i terrazzamenti quasi scompaiono. Se potessi allungare la mano fuori dal finestrino sono sicuro di poter toccare le cime. Si vede una linea quasi netta intorno ai 4000 metri d’altezza, centinaio più centinaio meno, dove non crescono più alberi.
Il viaggio è breve e per fortuna non ci sono i soliti messaggi incomprensibili del pilota che ti informa a che altezza sei, tanto per chiarire che se si precipita non si farà un bel botto, e la temperatura esterna, come se ci fosse bisogno di scoraggiare chiunque dal voler uscire a fare due passi.
Tocco il suolo di Lukla che la valle è ancora in ombra. La pista d’atterraggio è cortissima e in salita per rallentare velocemente durante la fase di frenata, o in discesa per chi decolla, lasciando i passeggeri senza fiato e con l’unica speranza che delle correnti ascensionali tengano su quel pezzo di metallo leggero e con due eliche.
Complimenti ai piloti che eseguono tutto manualmente.
A Lukla non c’è un granché. Vado subito al mio alberghetto, il nome m’era stato passato da Mister Kul, e mi scaldo con una buona tazza di tè bollente.
Gironzolo per il paesello andando su e giù e convincendomi che è un buon allenamento, una buona fase di preparazione per le future scarpinate montane. Forse mi illudo? Mah, per ora mi sento Messner anche quando salto da una roccia ad un’altra sopra il letto di un magro ruscello.
Per distrarmi leggo un libro che trovo nell’Everest Lodge dove soggiorno, “Veronika decide di morire”. Mi sembra il libro giusto per ammazzare il tempo. All’inizio Veronika cerca di suicidarsi, ma all’ora di cena mentre mangio una zuppa, Veronika è ancora viva. E’ trascorso tutto il pomeriggio e mi chiedo quando cazzo morirà.
Dopo cena degli amici della padrona portano un dvd da vedere insieme. Si tratta del matrimonio della figlia. Oramai devo finire il libro prima di andare a letto. Si tratta di vita o di morte. O Veronika muore e vado di corsa a dormire, o il film del matrimonio sherpa mi ucciderà lentamente di noia.
Alla fine, dopo circa duecento pagine aspettando e soffrendo per il triste destino di Veronika, si scopre che è tutto finto. Il medico per curarla dalla depressione suicida le dice che ha ancora una settimana di vita. Veronika riscopre la gioia di vivere liberandosi dai vincoli di una vita dalla fine incerta, e Veronika torna a vivere felice e contenta per chissà quanti anni. L’idea finale non è male, ma non ho tempo per pensarci, il matrimonio sherpa sta scandendo le mie ultime ore e se non scappo a letto potrei essere io la vittima stasera al posto della protagonista slovena. Morire di noia, no grazie. Qualcuno lassù mi ha donato delle qualità, ma non ha certo abbondato nella resistenza contro i filmati dei matrimoni.
Mi rifugio in camera scusandomi di non poter trattenermi a lungo perché domani sarà una giornata dura. Capiscono e mi danno il permesso di ritirarmi nella mia stanza.
Sono a 2800 metri. Il cielo è coperto e non vedo le stelle. Mi chiedo se lo smog di Kathmandu arriva fino a quassù. Oppure è la romantica foschia che avvolge la valle e la fa addormentare? Stavolta sono sicura che si tratti della seconda.
- blog di Unprepared Andrea
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