25.01 I templi di Angkor

Da Don Det, Laos, giunsi a Siem Reap, Cambogia, in piena notte dopo sedici ore di autobus e tre cambi di veicolo. L’attraversamento della frontiera fu un passaggio lungo e noioso con la polizia che cercava in ogni modo di spillarti qualche dollaro in più con motivazioni assurde.
Subito mi resi conto dell’assurdità della politica monetaria locale. In Cambogia la moneta locale è il rial, ma tutti usano i dollari. Usando le carte bancomat internazionali ai terminali si possono ritirare solamente dollari che non serve poi cambiare. La differenza tra pagare in dollari o in rial è di circa 1%, cioè spendendo duecento dollari in due settimane avrei risparmiato due dollari, o l’equivalente di due noodle soup. Perciò a meno che non si abbia intenzione di spendere 100.000 dollari in Cambogia non serve cambiare i soldi. Sembrava che tutto costasse un “dolla”. Dolla, anziché dollar, perché ai cambogiani non piace pronunciare la r.
Arrivato all’una di notte a Siem Reap seguei una coppia di americani per condividere la spesa del tuk tuk, o risciò. Trovai una guest house appena fuori dalla zona caotica del centro e il proprietario era una persona molto amabile.
Dietro alla guest house c’era una crocodile farm, un allevamento di coccodrilli (i famosi coccodrilli cambogiani? Mah…) e quando non cambiavano l’acqua delle vasche e rimaneva ferma a stagnare per giorni le zanzare si moltiplicavano felicemente venendo a trovarci alla sera assalendoci senza remore.
Il simpatico proprietario mi raccontò di come Siem Reap si era sviluppato negli ultimi dieci anni per accogliere i turisti. Aveva lavorato per dieci anni dopo la caduta del regime e l’apertura al mondo della Cambogia in una organizzazione che si occupava dei rifugiati e aveva girato il suo Paese aiutando la gente. Ora era in pensione e si era costruito dal nulla un’accogliente guest house. Raccontò di come dieci anni prima non c’era alcuna strada asfaltata a Siem Reap, almeno così me l’aveva venduta, ed era diventata una città a regola d’arte per il turismo di massa che si dirigeva ad Angkor, incluso il night market e una “pub street”. Ovviamente ero anch’io uno di quei turisti che era lì per visitare i templi di Angkor.
I cambogiani mi piacquero da subito. Non li sentii mai troppo insistenti nel vendere, mai aggressivi nei miei confronti o verso altri turisti. Li vidi spesso sorridenti e accoglienti, ma non invadenti né troppo generosi da risultare finti. Era un popolo che era uscito da non molto dall’orribile periodo di paura, violenza e morte color rosso sangue di Polpot & Co. e sembravano volessero dimenticare e guardare avanti il più in fretta e lontano possibile. Ciononostante i gentili e buddisti thailandesi in quei giorni cominciarono a sparare ai cambogiani al confine nell’area attorno al tempio Prasat Preah Vihear. I thailandesi dicono che è terra loro, mah… una cosa è sicura, non si saprà mai chi fu il primo ad aprire il fuoco. L’assurdità di quel conflitto stava pure nel fatto che gli altri posti di frontiera tra Cambogia e Thailandia erano tutti aperti, gli scambi prosperavano come al solito e la gente, fondamentalmente, se ne fregava.
Decisi di affrontare il sito di Angkor in modo temerario, in bicicletta, dribblando gli autisti di tuk-tuk che cercavano di vendere i loro tour. Siccome avrei pedalato per tutto il giorno per una trentina di chilometri sotto la calura pensai bene di non maltrattare il mio fondo schiena e per due “dolla” noleggiai una mountain bike in ottime condizioni con un comodo sellino.
Mi svegliai presto e alle sette del mattino ero in strada pronto a sborsare 20 dollari, la tassa turistica per Angkor. Saltai Angkor Wat all’inizio del giro lasciandolo per ultimo sperando di essere in asincronia con i gruppi di turisti, ma tutti erano dappertutto in ogni caso.
Le facce di Bayon, ad Angkor Thom, mi accolsero immutevoli. Era una sensazione speciale quella che provai mentre camminavo nel tempio, tra quelle rovine millenarie di antico splendore e magnifiche in modo diverso ai miei occhi. Mi sembrava di essere in un racconto fantasy o in un romanzo storico e d’avventura. Tutt’attorno cresceva la foresta quasi a proteggere e nascondere i misteri e la spiritualità dei templi. I siti che piacciono di più sono quelli che riescono a trasportarmi altrove, dentro una storia, anche se fantasiosa, e i templi di Angkor mi stavano raccontando la loro.
Mentre passavo affascinato oltre Baphuon e continuavo in bicicletta il mio tour pensai a quanto paradossale sia che il sito storico più importante della Cambogia, Paese a maggioranza buddista, fosse un insieme di templi principalmente induisti. D’altra parte se pensassi ad un monumento in India, terra induista, mi verrebbe in mente subito il Taj Mahal, una tomba mussulmana, solo dopo mi ricorderai del tempio di Madurai nel Tamil Nadu.
Era piacevole pedalare sotto gli alberi in solitario mangiando un ananas infilzato da uno spiedino, anche se il caldo aumentava con le ore e faceva sudare ad ogni respiro.
Visitai molti templi. Credevo mi sarei stufato dopo un paio, ed invece ogni tempio era un qualcosa di nuovo e curioso che catturava la mia attenzione e sveglia il mio interesse. Tra tutti, ovviamente Ta Prohm fu il mio preferito anche se Preah Kahn finì secondo per poco. A Ta Prohm gli alberi crescono sui tetti del complesso. Ci sono alberi che sono un tutt’uno con le rovine. Uno spettacolo incredibile come solo la natura sa e può creare.
Poco dopo mezzogiorno il caldo si fece insopportabile. Conclusi con l’impressionante Angkor Wat. E tornai a Siem Reap.
Alla sera avevo prenotato il viaggio per il mare di Sihanoukville e aspettai il mio sleeping bus combattendo contro le infernali zanzare dell’allevamento di coccodrilli svuotando la bomboletta di antizanzara.
E così anche Angkor poteva essere cancellato dalla mia lista. Ora mi mancava solo andare al mare a fare immersioni in Cambogia, la nuova meta turistica “alternativa”.