Jaipur, la battaglia degl'aquiloni
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“Quattro sono le cose importanti nella vita: il profumo, che ti penetrano l’anima; i fiori, dai colori e dalle forme divine e dai quali provengono i profumi; i figli, simbolo del compimento del volere divino; e soprattutto la musica, che con divina armonia unisce il mondo e tocca le corde dello spirito. Senza questi quattro elementi, non si può essere felici.” Questo era il pensiero di Rumashat, pittore musicista di Jaipur.
Incontrai Rumashat il primo giorno che passammo a Jaipur, nel cuore della “Pink city”, la città rosa, al centro di Jaipur ai piedi del Nahagahr, la fortezza in rovina che domina la città dall’alto di una collina arida e rocciosa. Il Nahagahr non è imponente come la fortezza di Jodhpur, “Blue city”, la città blu, ma fummo attirati lo stesso verso la vetta una volta scorta dalle viuzze strette e caotiche che stavamo attraversando da un’ora.
Eravamo finalmente in Rajasthan, e la temperatura era decisamente mite. Un sollievo paragonato alle settimane di viaggio da Istanbul a qui. Eravamo arrivati la notte precedente in treno da Agra e un ragazzo in risciò ci accompagnò ad un albergo dal prezzo ragionevole. Il ragazzo, Lucky, era mussulmano e ci aiutò a trovare un alloggio nella città praticamente piena a causa del “Kite festival”, il festival degli aquiloni, che si svolgeva proprio in quei giorni e del quale eravamo stati informati durante il tragitto in treno da delle ragazze inglesi armate di tre guide in due. Penso che il fatto di aver notato che Lucky fosse mussulmano e averlo salutato con “Saalam Aaleikum” e “Insciallah” ci abbia aiutato a trovare qualcosa senza pagare cifre elevate. Ci prese di buon occhio grazie al mio riconoscimento e rispetto della diversità mussulmana in un Paese induista.
Durante il viaggio in treno avemmo modo di scambiarci opinioni sul Taj Mahal. Ovviamente è uno dei monumenti che DEVE essere visitato in India, però a me non detestò chissà quali emozioni. Era la seconda volta che lo visitavo, e ne’ la prima, ne’ la seconda mi suscitarono l’entusiasmo dovuto, almeno a quanto dicono tutti i turisti. Certo, la costruzione era decisamente bella e suggestiva, ma se l’arte centra il cuore, beh, il Taj scagliò la freccia lontana da me.
Il mausoleo del Mugol Shan Jahn e di sua moglie è una delle più affascinanti opere provenienti del mondo islamico. Costruito con marmo bianco e con brani del corano scolpiti sulle arcate è imponente, ma il fatto che gli stranieri debbano pagare 750 rupie, e gli indiani 50, già non mi mise di buon umore. Inoltre, come mi accadde quattro anni precedentemente, non riuscivo a smettere di pensare a tutti quei soldi buttati via dal regnante per il suo ego personale, lasciando morire la sua gente e tutte le vite costate nella costruzione. Strano che celebriamo i re, imperatori, faraoni, mugol per le loro opere grandiose frutto di sfruttamento di schiavi e causa di morte, quasi che le cose più belle e maestose che l’uomo riesca a creare nel corso dei millenni debbano venire da distruzione e dolore. Costruzione e distruzione. Non potremmo rifarci semplicemente ai profumi, ai fiori, ai figli e alla musica come diceva Rumashat?
Alla mattina del primo giorno Lucky ci portò in centro e lì camminammo fino a trovarci per caso all’inizio della salita per il forte. Vedendo una strada che saliva, non potevamo esimerci dall’imboccarla. Già arrivati a metà avevamo superato o eravamo stati superati da capre, mucche, maiali, motociclette che si inerpicavano e scendevano per la stretta viuzza. Ma soprattutto incontrammo bambini che giocavano con gli aquiloni e che correvano da una parte all’altra recuperando gli aquiloni perduti prima che sia qualcun altro a farlo per poi rivenderli. Per raccogliere gli aquiloni i bambini si arrampicavano su alberi come scimmiette e su per la parete rocciosa e impossibile da scalare per comuni mortali come degli stambecchi.
La vista della città rosa o città vecchia dalla fortezza era spettacolare, mozzafiato. Le case erano dipinte di rosa costruite una sull’altra e dalle terrazze, che altro non erano che i tetti, partivano interminabili fili con attaccati gli aquiloni. Il cielo era già pieno e dall’alto il rumore fastidioso del traffico fu sostituito dalle gioiose grida dei ragazzini e non che giocavano con gli aquiloni cercando di tagliare il filo del vicino con una tecnica che non ho mai ben capito.
La vera festa era prevista per il giorno dopo, quando l’intero cielo di Jaipur si sarebbe coperto di quadrati di carta colorata, il traffico si sarebbe fermato e per tutto il pomeriggio fino al calar del sole si sarebbe sentito solo il grido “Bochata!” di quando si riesce a tagliare il filo del vicino così che, sconfitto, perda il suo aquilone che viene immediatamente rimpiazzato. Il filo di cotone viene rafforzato con della polvere di vetro e diventa rigido e tagliente. Con abili movimenti tirando a strattoni o allentando il filo, l’aquilone si muove a destra o sinistra, in basso o in alto avvicinandosi a quello del vicino, fino a che, zac! “Bochata!” Ci provai.
Un venditore di aquiloni, mentre i suoi assistenti si occupavano del negozio, era per strada e mi invitò a provare. Tirai in aria l’aquilone, segui le istruzioni e zac!... persi l’aquilone, ovviamente. La gente attorno rideva divertita, come dal resto ridevo anch’io. Era divertente. L’intera città rideva e si divertiva quel giorno.
Quando incontrai Rumashat stavo curiosando tra i dolci di una bancarella indeciso se rischiare o meno. Si avvicinò offrendomi un assaggio. Poi parlando, scoprii che parlava un po’ di italiano appreso da un suo studente di musica calabrese che andava a Jaipur ogni anno per un mese. Stava andando a casa di un suo amico e ci invitò a seguirlo per godersi gli aquiloni al tramonto dalla terrazza sorseggiando chaj. Guardai Franta e lo seguimmo già pensando a cosa voleva venderci o a che tipo di offerta dovevamo lasciare. Invece era tutto pura ospitalità indiana in quelle giornate di festa. Salimmo quasi arrampicandoci sul terrazzo di una casa dipinta di blu che contrastava il rosa delle costruzioni attorno. I figli giocavano con gli aquiloni e noi quattro ci sedemmo mangiando dolci, bevendo chaj e fumando. Fatto buio scendemmo ammirando uno bagaglio strapieno di aquiloni pronti per il giorno dopo.
Rumashat era molto gentile con noi e ci invitò a cena e ad una festa con dei suoi amici musicisti. Ci mettemmo d’accordo per la sera. Gli dissi che apprezzavamo molto la sua compagnia e gli chiesi perché ci aveva invitato a casa del suo amico così a bruciapelo senza conoscerci.
“Perché quando ti ho parlato, tu mi hai risposto sorridendo, senza il timore che molti turisti hanno e che li fa stare sulla difensiva. Mi sei sembrato aperto ad ascoltare e ha capire chi ha buone intenzioni da chi vuol nuocere. Ed è un piacere ed un onore per me poter trasmettere un’esperienza positiva delle nostre tradizioni ad uno straniero. Ti ringrazio io per aver rimosso i dubbi e aver visto l’onestà del mio invito.”
La sera comprammo una bottiglia di rum da portare alla festa. L’ultima volta che avevamo bevuto un goccietto era stato al confine Turchia-Iran, dove per paura della legge coranica avevamo dato fondo alla bottiglia di slivovice che Franta aveva portato con sé. Putroppo, quella sera, stanchi ci addormentammo e non andammo da Rumashant. Ci rifacemmo il giorno dopo. Girovagando per la città andammo a trovarlo e ci mettemmo ancora d’accordo per la sera. Stavolta saremmo andati direttamente a casa sua.
All’ora prestabilita ci facemmo trovare in zona e un ragazzo ci avvicinò indicandoci casa sua. Rumashant gli aveva detto che se vedeva due stangoni bianchi e pelati, uno italiano e l’altro ceco doveva dirgli doveva viva. La casa era dietro l’angolo e al piano terra c’era una stanza dedicata a Ganesh dove la famiglia faceva le offerte e pregava ogni giorno.
Ci accomodammo per terra sul terrazzo in quattro uomini, mentre la donna di casa preparava il chaj. Il padrone di casa aveva una visione abbastanza aperta della vita coniugale, ma non avrebbe per nulla al mondo lasciato la sua famiglia e i suoi figli che adorava. Bevemmo e man mano che il rum si svuotava dai bicchieri e riempiva la nostra testa, l’amico, il quarto uomo, raccontava storie, più o meno veritiere su laghi e coccodrilli, asini che combattevano contro tigri, tartarughe che mangiavano i cadaveri dei giovani suicidi e la bravata e liti che lui, essendo un Rajput, appartenendo alla seconda casta, quella dei guerrieri, vinceva puntualmente.
Arrivò una quinta persona, un poliziotto, e come una logica conseguenza ci mettemmo a fumare. A un certo punto successe qualcosa di strano. L’ultimo arrivato si alzò e andò via all’improvviso e Rumashant si adirò coll’amico che era colpevole di avergli versato dell’alcol in presenza dell’altro. A quanto pare, il nostro amico apparteneva alla casta più alta, quella dei bramini o sacerdoti, e perciò non poteva bere e nemmeno il poliziotto beveva. Questo faceva sì che non ci doveva essere alcol bevuto per rispetto dell’ultimo venuto, per non farlo sentire a disagio, per non dirgli “noi qui beviamo e ci divertiamo e tu invece sei lì, lagnoso, palloso.” Era una forma di rispetto che non avevo mai visto, ne’ immaginato. La situazione imbarazzante proseguì per una decina di minuti con il nostro amico adirato e il guerriero colpevole del misfatto che si scusava continuamente.
Una volta calmati, ci dirigemmo alla festa. Era una festa organizzata in un quartiere povero di Jaipur da un gruppo di persone che facevano capo a dei musicisti. In particolare, la stella era Rahis, un musicista zigano che ora viveva in Francia e che girava il mondo in tour con i suoi Dhoad Gypsies of Rajhastan. Aveva cominciato a suonare dal nostro amico e poi era diventato una star. Lo stesso giorno aveva appena terminato di registrare il nuovo album e poi sarebbe partito per la Francia. Ci trattarono tutti come ospiti speciali. Eravamo indubbiamente l’attrazione della serata. Ci sedemmo in una stanza con altri musicisti e ci fu portato cibo che mangiammo con le mani seguendo il loro esempio. Penso non ci volevano far vedere in giro più di tanto per evitare che tutti venissero a vederci e a trattarci come degli animali dello zoo un po’ come era successo a Sirjan in Iran al pranzo di Natale.
Ringraziammo per l’ospitalità e ci spostammo ad un’altra festa in terrazzo, dove però stavolta arrivammo che era già finita. Restammo attorno al fuoco a parlare con un paio di persone che avevano organizzato la festicciola e che ora si stavano godendo l’ultimo bicchiere. Al padrone di casa, un giovane di trentacinque anni, era molto simpatico Franta. Diceva che gli ricordava suo fratello. Mah… come può un tipico ceco di un metro e novanta, con occhi chiari e pelle sensibilissima al sole sembrare un indiano del rajasthan, per me rimane un mistero che trova spiegazione solo nella birra.
Purtroppo il freddo non fece bene a Franta e il giorno dopo fu costretto a rimanere a letto tutto il giorno mentre io andavo in cerca di un autobus per Pushkar.
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