Ore 6 del mattino, Manila. Niente è perfetto, ma tutto può essere bello.

Ore 6 del mattino. Aeroporto di Manila.
Sono seduto al bar “Le Bistro”. I bar degli aeroporti hanno tutti nomi francesi o italiani, come se solo da noi e dai cugini d’oltralpe la colazione fosse un rito. Poi ci si presenta al bancone e si trova che l’espresso te lo servono su un bicchiere da mezzo litro, e non ci sono croissant, ma sandwich e muffin.
Ho ancora diverse ore d’attesa per il mio volo per Puerto Princesa, nella provincia di Palawan. Perciò non mi resta altro che bere questo mezzo litro di cappuccino con la cannella, cosa che detesto. Il bar ha una lentissima connessione, ma almeno passo il tempo a caricare più volte la stessa pagina.
Leggo delle prime bombe sganciate dai nostri Tornado in Libia. Bene, la strada era già indicata ora l’abbiamo presa a tutta velocità. Mi viene in mente il racconto “La sentinella” di Fredrick Brown. Un tema, quello della guerra, purtroppo sempre attuale. La guerra, la fame e il calcio sono le uniche cose che non mancano mai in questo mondo. Per fortuna che c’è pure il “capu in b” dei caffè di Trieste, o lo spritz veneto a tirarci su di morale.
Alzo la testa dallo schermo e vedo la mia immagine riflessa da un enorme specchio. Sono stanco. Non ho dormito tutta la notte a causa dello scomodo volo da Kuala Lumpur fino a Manila. Ho la barba incolta da settimane. A Koh Tao non mi sono rasato perché una scomoda reazione allergica a non so bene cosa, mi aveva irritato la pelle del collo. E così sono diventato il barbone da trekking solo che stavolta ero al mare a fare immersioni.
Quasi non mi riconosco. Sono stanco dal viaggio o del viaggio? Un po’ tutte e due le cose. Viaggiare è diventata quasi una routine. Prendere ed andare è letteralmente ciò che ho fatto da quando mi sono separato con Franta in Laos. Non mi preoccupo nemmeno più della situazione dei visti. Non cerco le connessioni. Non guardo la piantina della città dove sono diretto. Non prendo nota degli ostelli. Prendo e vado, quasi di inerzia. E tutto fila liscio. “Slowly, slowly”, piano, piano, come diceva Adnan, il mio istruttore del corso divemaster a Koh Tao. Lui era un omone enorme. Un turcomanno che durante le lezioni di storia me lo vedevo davanti maneggiando una scimitarra da un quintale come fosse un fioretto di scherma. Un metro e novanta di massa muscolare e un torace che poteva essere usato come paracarri. Un gigante. E come tutti i giganti, era buono e simpatico. Diciamo che se lo poteva permettere.
Prendendo le cose con la dovuta lentezza o velocità, senza affanno, gli ingranaggi ruotano a dovere. E poi c’è bisogno di “Relax”, come ripeteva Abel, l’altro istruttore, il biondo catalano tutto sigarette, filosofia, la sua, e professionalità. L’altra istruttrice era Lola, francese. Rara bellezza la sua, nascosta sotto riccioli bruni. Forse l’unica donna che era bella anche sott’acqua con tutto l’equipaggiamento per le immersioni, muta, maschera, pinne, giubbetto ad assetto variabile e bombole.
Attorno a me ci sono tre ragazze che viaggiano insieme, una messicana, una malese e una slovacca. Più in là ci sono un inglese, un tedesco, un francese e un italiano, come nelle barzellette. Tra me e lo specchio due piloti stanno facendo colazione bevendo coca-cola e mangiando una zuppa coprendosi la camicia bianca con un paio d’alberi di tovaglioli di carta. Distinguo il primo pilota dalla valigetta che sembra quella di un dottore, mentre il copilota ha una classica samsonite con le rotelle. Vicino al bancone c’è una famiglia di filippini. Madre, padre, e due figli, uno maschio, il più piccolo, e una femmina, la più grande. Sento che la messicana dice “a volte i filippini hanno un aspetto molto simile al nostro”. Effettivamente vedo filippini indios, e filippini cinesi. Ad osservarli bene, riconosco pure filippini malesi, filippini indonesiani, e filippini thailandesi e vietnamiti. La loro parlata a volte suona spagnola, altre simil-inglese, altre ancora veronese, ma la maggior parte delle volte sembra filippina. Chi sono i filippini? Forse Palawan me lo dirà.
Dall’enorme vetrata che c’è in tutti gli aeroporti entrano i primi raggi di sole. Vedo Manila. La città si sveglia. Ad un'estremità del panorama c’è un parcheggio multipiano. Dietro vedo i grattacieli del centro, più numerosi e alti di molte capitali europee. Proseguo e il mio sguardo incrocia dei palazzoni residenziali nuovi di zecca dai colori vivi. Poso gli occhi su di una chiesa poco lontana. E’ a forma di croce con una cupola blu. Chiude lo scenario una gru.
Mi guardo nuovamente allo specchio. Che cosa ci faccio qui? Come sono capitato a bere un cappuccino alla cannella all’aeroporto di Manila? Ero il manager in carriera di una multinazionale.
A volte mi sento un estraneo che mi sta guardando da fuori e non riesco a farmi una chiara idea di ciò che vedo.
Sicuramente è uno che viaggia da molto. Potrebbe prendersi un po’ più cura della sua immagine, ma d’altra parte, tutti i viaggiatori devono avere l’aspetto un po’ trasandato, altrimenti vengono scambiati per dei frequentatori di resort o bordelli. A prescindere dallo stile sembra uno che… non so, non so più a chi o a cosa sembra. Guarda lo specchio e sorride. Anche mentre scrive sorride. Sorride un po’ a tutti, e loro contraccambiano e il sorriso rimane per qualche minuto sul volto che prima era cupo (e vorrei ben dire, sono le 6 del mattino!).
Ora ride. Pensa al controllo del check in a Kuala Lumpur. Al metal detector l’addetto alla sicurezza gli ha ordinato con gentilezza ferma: “Togliersi la cintura, prego.” Lui indossa dei pantaloni marroni di cotone stile thailandese. Sono oltremodo larghi per essere comodi. Ce ne potrebbero stare due di persone come lui lì dentro. Per tenerli su sono legati alla vita con una specie di cordone di cotone. Lui alza la maglietta e risponde: “Se vuole me la tolgo, ma poi devo passare in mutande.” La guardia ci pensa un attimo, e ridendo lo lascia passare con i pantaloni addosso.
Forse è un po’ pazzo. Credo sia uno che nella sua arroganza crede di aver capito come vanno le cose. E di sicuro si sbaglia. Probabilmente pensa che non c’è giusto o sbagliato, e nemmeno che nel bene c’è sempre un po’ di male o viceversa. Ha concluso che c’è il bello e il non bello, ma che non deve per forza essere sbagliato o rappresentare il male. Di certo ha capito che questa è la sua vita, che nulla è perfetto, ma che tutto può essere bello, anche se non bellissimo, e che si può goderne.
Ora lo vedo distendersi. Si rilassa. “Relax”, con accento catalano gli risuona nelle orecchie. E lentamente, “slowly, slowly”, sorseggia il cappuccino, che quella mattina ha un sapore di caffè alla turca.