18.01 Masticando chat ad Addis Abeba

Fui costretto a volare da Nairobi ad Addis Abeba perché le ambasciate etiopi in Uganda e in Kenya non rilasciavano visti per attraversare i confini via terra. Parlammo con diversi livelli gerarchici in ambasciata ma non ci fu verso di ottenere l’agognato visto. Dovemmo volare.

Appena atterrati ci fu offerto un passaggio in taxi per dieci dollari a testa. Uscimmo offesi da quel tentativo di estorsione e dirottammo un minibus per dieci birr, mezzo euro in due. La parola per l’uomo bianco non era più musungu, ma ferengi. Il tentativo di incularti era sempre lo stesso.
Viaggiavamo con una coppia di americani e ci lasciammo guidare in un albergo vicino alla stazione dei treni. Una stazione dei treni che serviva solamente a segnare la zona, “la gare” alla francese, in quanto c’era una sola linea che collegava Addis Abeba a Djibuti e non funzionava da anni, forse dall’epoca coloniale italiana visto come era ridotta.
Ci volle poco a capire in quale guesthouse eravamo capitati. La stanza accanto alla nostra era un centro massaggio aperto 24 ore su 24. C’erano due ragazze che si alternavano sul davanzale quando entrava un cliente. Anche qui la gente si arrangia come può praticando il mestiere più vecchio al mondo.
Avevamo una missione prima di intraprendere qualsiasi altra iniziativa: dovevamo ottenere il visto per il Sudan. Fu incredibilmente facile. La condizione era quella di avere il visto egiziano per ottenere un permesso di transito. Quattro giorni per il visto egiziano e uno solo per quello sudanese. La cosa più fastidiosa fu sborsare cento dollari all’ambasciata sudanese. Non una mazzetta, ma il semplice costo del visto. Un furto legale. Da quella parte dovevamo passare per andare in Egitto. Non c’era altra via.
Prima del visto egiziano dovevamo procurarci dei soldi e girammo mezza Addis per trovare uno dei rari bancomat internazionali. In centro trovammo un simpatico vecchietto zoppicante eritreo che conosceva tutti e tutto di Addis e parlava un po’ di italiano. Ci aiutò a prendere il minibus per andare all’ambasciata.

I minibus ad Addis sostituiscono gli autobus e funzionano in maniera efficiente per andare ovunque, basta solo sapere dove si vuol andare, che non è così scontato. Anche la quantità delle persone che vengono schiacciate dentro ai veicoli era accettabile. Mi trovai solo una volta a sedermi su uno sgabello improvvisato praticamente con il portellone che si chiudeva sulle mie orecchie.
Con pochi centesimi di euro arrivammo a destinazione, grazie soprattutto alla gente che ci aiutava senza chiederci nulla in cambio. Che differenza rispetto ai Paesi dell’Africa Orientale dove anche per al più semplice delle informazioni la gente chiedeva la mancia, cosa che io, stronzo, non l’ho mai data.
La gente per strada non sorrideva, non si fermava a parlarci, se ne fregava di noi. Solo se interpellati si dimostravano molto disponibili con gli stranieri. Non eravamo più al centro dell’attenzione e la cosa non mi dispiaceva affatto, anche se il mio ego da superstar un po’ ne soffriva.
Eravamo in un’Africa diversa. Anche la gente aveva un aspetto diverso, più arabeggiante nel colore della pelle anche se con capelli ricci e la parte delle donne che portava la parrucca era inversa confrontata con gli altri Paesi africani. E devo ammettere che le donne erano più affascinanti.
Allo stesso tempo mi aspettavo una metropoli africana ricca, nonostante la povertà del Paese, e invece pochi erano i palazzi nuovi e molti erano i mendicanti che vivevano per strada e che chiedevano l’elemosina. Forse vidi più poveri e mendicanti in Etiopia che in India e fu, come allora, uno shock.
Incontrammo dei ragazzi che ci offrirono il caffè solo per poter scambiare poche parole in inglese e raccontare di loro e sentire le nostre storie. Una delle poche cose positive che noi italiani avevamo lasciato in eredità era il caffè. Paradossalmente in Kenya, Uganda e in Tanzania il caffè che ti viene servito è quello solubile, lavorato da chissà quale multinazionale anche se viene prodotto da loro. In Etiopia, invece, il caffè è quello prodotto da loro e ha un buon aroma. Nei bar usai la parola magica “macchiato”, e temendo chissà quale intruglio, con mi sorpresa arrivava veramente un caffè macchiato.
Il giorno dopo incontrammo un altro ragazzo, Ibrahim, che ci aiutò nella nostra ricerca per un mezzo fino ad Harar. Si dimostrò gentilissimo. Anche lui ci offrì il caffè, chiamò l’agenzia viaggi per dirci che purtroppo non c’erano autobus privati e che avremmo dovuto prendere quello pubblico. Perfetto per noi. Perché viaggiare comodamente quando si può soffrire in uno sgangherato autobus per 15 ore?
Ibrahim fu disponibile anche quando ci invitò ad un evento particolare. Era il giorno in cui alcuni Rasta si trovavano in dei locali a masticare “chat” e noi potevamo unirci a loro. Io e Franta scoprimmo, impreparati com’eravamo, che i giamaicani elessero a messia l’imperatore etiope Haile Salassie I che fu chiamato Ras Tafari. L’imperatore concesse ai rastafariani un pezzo di terra nel sud dell’Etiopia, e non tutti gli etiopi sono contenti di questo.
Ci sedemmo in un buio locale dove delle paratie dividevano lo stanzone creando delle salette private. La gente arrivava. C’erano dei rasta e altri ragazzi proveniente da tutte le parti dell’Etiopia. Masticavamo foglie di chat, una specie di eccitante disgustoso e amaro da tenere in bocca per estrarne il succo. L’effetto avrebbe dovuto essere quello della caffeina. Bevvi pure una cosa rivoltante, lo spritz. Dalle mi parti lo spritz è una bevanda fresca, vino bianco, acqua e aperol, in Etiopia, purtroppo, è un bicchiere di caffè e tè mescolati insieme. Al solo pensiero rabbrividisco ancora.
Si fece sera e fu una piacevole giornata passata a chiacchierare con persone di una certa cultura, gentili e simpatici. Ibrahim era responsabile di noi e si dimostrava un perfetto padrone di casa ordinando quello che ci mancava.
Tutto era perfetto. Fino a quel momento il popolo etiope ci aveva stupito con la loro premura e accoglienza. Fino a quel momento. Fino al momento del conto.
Ci fu portato un conto salatissimo. Va bene, forse non era una grossa cifra vista agl’occhi di un occidentale, erano venti euro a testa, ma noi ci aspettavamo dieci euro ciascuno.. Quello che ci ferì non fu il costo, ma il fatto che tutta quella gentilezza fatto con uno stile perfetto che non avevamo ancora visto in 9 mesi di viaggio, era tutta finalizzata a fregarci.
Sì, tutto il mondo è uguale. L’uomo bianco è un bancomat che cammina. Punto.
Eravamo delusi. Delusi degli etiopi, delusi di noi stessi perché eravamo stati dei fessi. Ma non era finita. Gli etiopi avevano in serbo un’altra sorpresa, piacevole stavolta.
Mentre ci rifiutavamo di pagare e la maggior parte dei nostri compagni supportava Ibrahim, un ragazzo fece un cenno alla persona di fianco a me. Lui mi mostrò il suo cellulare e mi disse: “questo è il mio numero di telefono.” Cosa? Siamo qui arrabbiati con voi tutti e tu mi vuoi dare il tuo numero di cellulare? Nonostante tutto, per non so quale motivo guardai lcd del cellulare. Non c’era un numero di telefono. C’era scritto “Non pagate. Pagate la metà e va bene lo stesso.” Così facemmo. Eravamo stati fregati, certo, ma non in malo modo.
Quel giorno ci insegnò che, purtroppo, non bisogna mai abbassare la guardia. Non eravamo in pericolo, al massimo saremmo stati dieci euro più leggeri, ma era un’avvisaglia. Allo stesso modo godemmo di quella serata. Se fossimo stati troppo sulla difensiva come solitamente è il mio compagno di viaggio, avremmo perso molte esperienze positive. E’ un rischio da cogliere. Tant’è che guadagnai un amico sincero.
Incontrai Teddy, quello del messaggio sul cellulare, nei giorni successivi. Passai interi pomeriggi a bere macchiato, non spritz, e a discutere su cosa succedeva in Etiopia sempre con un sorriso. Il giorno della partenza da Addis, Teddy mi regalò un crocifisso, un piccolo souvenir che custodisco con cura come una cosa preziosa quale è un’amicizia.