16.03 Monte Elgon, dall'Uganda al Kenia a piedi 1
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Impotenti dentro alla nostra capanna di legno osservavamo il diluvio nella foresta. Il giorno dopo avremmo dovuto cominciare la nostra marcia di cinque giorni fino alla vetta del monte Elgon, Uganda, e da lì proseguire attraverso la catena montuosa fino in Kenya dove saremmo stati ricevuti dai militari al confine.
Il giorno prima eravamo arrivati da Mbale dove avevamo organizzato l’escursione con le autorità ugandesi. Un minibus ci aveva fatto scendere a Sipi, un piccolo villaggio ai piedi delle montagne. Con i nostri zaini sulle spalle avevamo sudato per tre ore superando favolose cascate, villaggi di capanne costruite col fango e canne piene di bambini che ci correvano dietro scalzi, piantagioni di caffè, qualità robusta, palme di banane, fino a giungere all’entrata del parco dove i militari ci avevano accolti freddamente e piazzato in una capanna con, fortunatamente, comodi letti.
La camminata del giorno prima ci aveva messo alla prova e avevamo i nostri dubbi sul fatto che avremmo portato i nostri 15 chili di zaino sulle spalle. Forse ci avevamo sopravvalutato. Tacitamente anche Franta non era troppo convinto di ciò che avevamo di fronte. Al solito eravamo impreparati.
Alla mattina ci svegliammo col sole. Il pessimismo del mio pensiero della notte precedente sparì e mi sentii pronto e pieno di energie per attraversare la foresta. Con noi sarebbero venuti due ranger armati di fucile da 5 chili e due portatori per il cibo, la tenda e il bagaglio che dovevamo portare con noi seppur non ci servisse. Era un viaggio di sola andata, perciò dovevamo aver con noi tutta la nostra casa viaggiante, anche cose inutili per un’escursione montana.
Imboccammo un sentiero che si addentrava nella parte più fitta della foresta. Man mano che avanzavamo la striscia di terra camminabile si faceva più stretta. L’erba cresceva sempre più alta davanti a noi inghiottendo i nostri passi. Tutt’attorno alti alberi frondosi nascondevano la luce del sole. L’umidità non era elevata e l’ombra degl’alberi era piacevole. Uno dei portatori tagliò dei bambù per farne dei bastoncini da trekking. L’impugnatura era liscia, ma dura. Alla fine della giornata avevo già i calli alle mani causati dallo sfregamento della pelle sul legno ancora verde.
Patrick, uno dei ranger, apriva la strada con colpi di machete quando l’erba aveva mangiato troppa parte del sentiero o quando qualche ramo si insinuava davanti a noi. Camminavamo silenziosamente sul percorso poco ripido.
Dopo poche ore arrivammo a quello che di solito è il primo campo per pernottare, ma che noi avremmo lasciato alle nostre spalle quel giorno. Si trovava dentro ad una grotta davanti alla quale c’era una cascata alimentata dalle continue piogge. Ci fermammo a rifiatare e a mangiare. Con noi avevamo portato riso e pasta con verdura e fagioli in scatola, e del pane e marmellata per colazione. Per l’acqua non c’era problema, bastava riempire la bottiglia e bere, dopo averla purificata. Riprendemmo il cammino poco prima di mezzogiorno e il sentiero cominciò ad farsi leggermente più ripido.
Il respiro della foresta. L’unica cosa che si sentiva erano le foglie mosse da un leggero vento e qualche raro uccello. Solo una volta fummo visitati da delle scimmie colobus dal pelo bianco e nero incuriosite dai nostri respiri, ma che presto se ne tornarono sugl’alberi a ciondolarsi e saltare di ramo in ramo. I nostri passi e i colpi di machete qua e là a ripulire il sentiero disturbavano la quiete della natura. Nonostante il peso dei nostri zaini e il sudore che grondava dai nostri volti, ero sereno e la bellezza della natura vera e selvaggia mi incoraggiava a proseguire.
Ad un tratto quella quiete fu interrotta da un rombo. Mi guardai attorno e cercai lo sguardo delle nostre guide.
“Sono tuoni nelle vallate circostanti. Le nuvole si stanno organizzando per il temporale. Probabilmente pioverà nel pomeriggio. Succede sempre così.”
“E se piove dove ci ripariamo?” chiesi speranzoso.
“Beh, se piove vorrà dire che non ci sarà molto da divertirsi.” Vedendo la mia espressione affranta proseguì “In ogni caso il temporale è lontano. Se camminiamo veloci dovremmo raggiungere il campo prima che cominci a piovere.”
Non mi rincuorò molto, ma che altro si poteva fare? Eravamo lì per attraversare la foresta e scalare il monte. Eravamo all’equatore. Poco da sperare, da quelle parti, semplicemente, piove.
Dopo qualche ora superammo la foresta ed arrivammo ad uno spiazzo roccioso privo di vegetazione. Patrick spiegò con poche parole come faceva al solito:
“Da ora in poi gli alberi si faranno sempre più radi. Siamo oltre i 3000 metri e la foresta finisce lì.” indicò col fucile la vallata da dove eravamo venuti. Un altro tuono pose un punto esclamativo sulla sua frase. “Ora muoviamoci, che non mi piace bagnarmi.”
Camminammo per altre due ore. Il cielo era grigio attorno a noi, ma i tuoni minacciosi erano lontano. Avevano deciso di giocare a chi è il più forte in una delle valli più sotto.
Raggiungemmo il campo in un tempo record e piantammo la nostra tenda all’asciutto. I due portatori andarono a raccogliere legna per il fuoco con i loro machete. Era incredibile come riuscissero a tagliare un tronco di una trentina di centimetri di diametro semplicemente con secchi e rapidi colpi di machete dalla lama lunga e grossa. Immaginai quello strumento nelle mani sbagliate come spesso accade durante le rivolte tribali in Africa. Non era difficile vedere teste rotolare con taglio netto di quell’arma ora usata come strumento da boscaiolo al posto di una sega.
I ranger accesero il fuoco dentro alla loro capanna che fungeva da cucina, salotto e camera da letto. Aveva i muri costruiti con tronchi d’albero e il tetto in lamiera. Una volta accesso il fuoco era impossibile alzarsi in piedi. Il fumo si addensava nella parte superiore della costruzione alta circa tre metri e sembrava restio ad uscire. Forse anche a lui non piaceva la pioggia. Per non intossicarsi l’unica posizione era seduti a terra sul pagliericcio che faceva da pavimento.
“Se volete potete dormire qui con noi.” Ci disse uno dei ranger. “Lasciamo il fuoco accesso tutta la notte per scaldarci perché non abbiamo sacchi a pelo. Non è comodissimo, ma almeno si sta all’asciutto.”
Ehm… “No grazie. Abbiamo piantato la tenda e preferiamo dormire lì.” Soprattutto non vogliamo morire asfissiati dal fumo.
Eravamo i primi a cucinare sulle nostre pentole acquistate in un negozio indiano a Mbale. La pasta che cucinai, seppur al buio e stracotta con verdure in scatole, fu deliziosa in quelle circostanze. Tutto sembra più buono quando si è affamati, stanchi, infreddoliti e in mezzo ai monti dell’Uganda.
Un topolino girava lungo il muro dentro la capanna in cerca di avanzi. Condividemmo il nostro pasto anche con lui lasciando all’entrata un paio di penne rigate. Furono apprezzate anche da lui.
Andammo a dormire nella nostra tenda e cominciò a piovere. L’impermeabilità della nostra tenda avrebbe resistito ad un temporale equatoriale? Non lo sapevamo e non lo sappiamo tutt’ora. Fu una pioggerellina leggera e di breve durata. La montagna ci risparmiò il temporale.
Il giorno dopo proseguimmo su una terra coperta da cespugli e con pochi alberi e tante nuvole che ci accompagnarono dalla tarda mattinata. Ci fermammo più volte a riempire le nostre bottiglie d’acqua. Stavamo salendo lentamente, ma costantemente, e per combattere i problemi dell’altitudine dovevamo bere molto e fare conseguentemente molte fermate dietro ai cespugli.
Toccammo i 3800 metri e poi scendemmo al campo a 3500. Stavolta c’erano delle capanne ad aspettarci. Una era la solita cucina, salotto, camera da letto dei nostri accompagnatori, un’altra invece serviva da accoglienza per gli escursionisti.
Il campo era deserto. Questo era uno dei pregi del monte Elgon. Non essendo una meta ambita e conosciuta, pochi sono i turisti che si fanno vedere da quelle parti, e meno ancora quelli che cercano di passare in Kenya di là. Avevamo la montagna per noi.
Appena entrammo nei nostri alloggi e preparammo sacco a pelo e materassino, cominciò a piovere. Continuò ad intermittenza per tutta la notte. Il giorno seguente era il giorno della salita alla vetta, e il tempo, clemente fino a quel momento, non prometteva nulla di buona.
Ci svegliammo alla mattina col cielo grigio. Si vedevano appena i contorni delle montagne attorno a noi. Mi tornarono in mente le parole di Patrick:
“Beh, se piove vorrà dire che non ci sarà molto da divertirsi.” Esatto.
Ci incamminammo che non pioveva ancora. Indossai l’abbigliamento impermeabile e cominciammo la costante ascesa. Il sentiero era a tratti fangoso e ci costringeva a camminare sui ciuffi d’erba che si alzano dal terreno e creavano una sorta di marciapiede verde. Ciononostante si camminava sul fango come avevamo fatto per parte del tragitto nei giorni precedenti. Senza scarpe impermeabili non avremmo potuto avanzare.
Raggiunti i 4000 metri al lago di Jason il sentiero piegò a destra e cominciammo a salire sul cratere. Il monte Elgon è un vulcano spento di 4321 metri. Un numero come un PIN di un cellulare. Dopo pochi metri di saltellamento da un ciuffo d’erba all’altro, cominciò a piovere.
Arrivammo sul bordo del cratere. A sinistra avevo la caldera a destra lo strapiombo del vulcano fino a valle. Purtroppo le nuvole basse e la pioggia non ci davano pace e lo scenario aveva varie tonalità di grigio bagnato.
Il buon dio delle montagne ebbe pietà di noi. Sul Wagagai summit smise di piovere e un timido sole offuscate dalle nuvole diede un po’ di luce alla vallata. Seppur in condizioni climatiche pessime, lo spettacolo davanti ai miei occhi era fantastico. A pensarci bene, il grigiore che ci avvolgeva creava un’atmosfera particolare come la nebbia in val padana dona mistero ad una piatta pianura.
Per pochi minuti ammirai la caldera sotto di me. Era un enorme tappeto verde con degli specchi d’acqua che interrompevano la monotonia del paesaggio che appariva ai miei occhi stupendo. Si vedeva appena l’estremità opposta del vulcano. Patrick ruppe il silenzio soffice creato dalle nuovole grigie:
“Inutile che cerchi di vedere dall’altra parte. E’ una delle caldere più grandi d’Africa. E con questo tempo siamo fortunati che non piova per tutto il giorno.”
Nonostante tutto mi sentivo soddisfatto. Avevamo camminato con i nostri zaini per 3 giorni ad alta quota su un percorso difficile e fangoso. Eravamo senza comodità, soli e a contatto con la natura. Mi ero messo alla prova e l’avevo superata. In me c’era quella energetica sensazione di poter fare tutto, un po’ di machismo superman. Ero fiero di me e di Franta mio compagno di viaggio. Non potevo volere di più in quel momento.
Il rientro non fu facile. Dopo aver passato il lago di Jason la pioggia si fece più intensa e i miei piedi dissero basta. Non avevo le scarpe adatte. Avevo scarpe da passeggiata, non da escursione tra fango e rocce. Arrivai al campo per ultimo e la pioggia non fece accelerare i miei passi. Semplicemente non potevo camminare più velocemente e senza lunghe pause. Ciò non sminuì la soddisfazione dell’aver raggiunto la meta. Anzi, aumentando la difficoltà e la sofferenza, rese nel mio spirito, o chiamiamolo pure ego, l’escursione ancora più bella.
Stremati andammo a letto presto soddisfatti, ma non era finita. Il giorno dopo avremmo dovuto oltrepassare il confine. Ci aspettava un’altra lunga marcia sotto la pioggia e su un terreno fangoso.
- blog di Unprepared Andrea
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