12.03 Namibia on the road

Arrivati a Swakopmund dopo il safari all’Etosha ci separammo da Dave e Lisa i nostri due compagni di viaggio e dall’auto che avevano noleggiato. Ora avevamo un problema da risolvere: come girare in Namibia senza un mezzo proprio. Praticamente impossibile per quello che volevamo vedere in quella terra tra oceano e deserto.

Swakopmund è una città sulla costa dell’oceano atlantico a circa duecento chilometri da Windhoek. Ha circa ventimila abitanti quindi secondo il metro locale è la seconda o terza città per grandezza in Namibia. Fortunatamente è collegata alla capitale dall’autostrada asfaltata (non è scontato che le strade siano asfaltate, anzi, solitamente sono in ghiaia, terra battuta, sale o… sabbia) e dall’unico autobus che circola su lunghe distanze, il caro Intercape. Da Swakopmund ci sono due direzioni oltre a quella per l’entroterra di Windhoek. A sud la strada asfaltata porta a Walvis Bay tra dune maestose, dove si può fare del sand boarding, e il freddo e impetuoso oceano atlantico. A nord l’asfalto presto lascia posto alla terra battuta e alla strada di sale diventata nera che corre verso la Skeleton Valley. Su questa strada a destra c’è il deserto piatto di rocce, a sinistra il solito oceano che porta nebbia.

In paese le case sono state costruite secondo l’architettura coloniale tedesca. Se mi avessero portato lì bendato e fatto camminare per le vie, avrei pensato di essere da qualche parte in Germania al Mar del Nord o vicino Danzica. Tutto era ordinato, pulito e tranquillo. Neri e bianchi entravano e uscivano da negozi ben forniti e centri commerciali. Nella piazzetta venditori ambulanti esibivano centinaia di statuette in legno intagliato. I ristoranti erano cari per le nostre tasche. Selfcatering e pranzi pronti al Pick’n’Pay era il nostro motto.

Anche l’ostello in cui passammo la prima notte era costoso e alla mattina andai in cerca di un posto più economico dove piantare la nostra tenda. Sentivo il rumore assordante delle onde arrabbiate dell’oceano. Era una bella giornata e il sole riscaldava l’aria rendendola gradevole. C’era un leggero vento che dalla città spirava verso il mare. Seguii il vialone che portava verso l’oceano seguendo il suo frastuono. Ero a poche centinaia di metri e superai l’ultima casa prima di attraversare un largo vialone costiero e arrivare al molo. Lì c’era un confine invisibile tra città e mare. Fui investito dalla gelida brezza marina che spirava contraria al vento della città. In pochi metri passai da temperatura da maniche corte a maglioncino.

“Oggi il mare è arrabbiato.” Mi disse un bushman del Kalahari che cercava di vendermi dei souvenir già alla mattina presto.
“E freddo” aggiunsi io.
“Freddo lo è sempre. La corrente che proviene dall’Antartide sale fino all’Angola. Non vedrai molta gente fare il bagno da queste parti.” Mi corresse l’amico mattutino.

Chiarii subito che non avrei comprato nulla. “Allora mi puoi dare dei vestiti.” Gli spiegai che tutto quello che avevo con me era indispensabile, che non avevo con me nessuna cosa che non utilizzavo per non portare peso inutile sulle spalle. Chiacchierammo a lungo del più e del meno prendendoci in giro. Mi descrisse la vita delle tribù del Kalahari che andavano a caccia e vivevano in capanne in mezzo al niente. Con i suoi amici che occasionalmente comparivano per un saluto parlava nella lingua locale fatta di schiocchi di lingua contemporaneamente alla parole. Mi cimentai nella replicare la loro parlata tra le risate. Non capivo come facevano. O schioccavo la lingua o parlavo. Non riuscivo a fare le due cose insieme.

Trovammo un ostello gestito dal governo con un ampio parcheggio in terra dove potevamo piantare la nostra tenda per venti dollari namibiani, due euro. Eravamo gli unici ospiti con la tenda. Solo durante il fine settimana arrivarono degli autobus di un paio di scolaresche e di una squadra di rugby giovanile e fu party fino a notte fonda.

Una ragazza francese bloccata a Swakopmund da un mese in quanto anche lei senza veicolo ci consigliò di contattare un certo Silvester. Lui aveva un’auto a poco prezzo per due o tre persone che avremmo potuto noleggiare per andare in giro per la Namibia. Così facemmo. Era una Toyota Jazz rosso bordeaux, ma vista prima. Piccola e agile. Mi chiesi come avesse sopravvissuto alle strade di sassi e ghiaia. Firmammo un pezzo di carta formato A4 e ci mettemmo in moto dopo aver fatto provviste al solito supermercato.

La prima meta era Sossusvlei e Deadvlei, la valle della morte. Guidammo verso sud attraverso Walvis Bay l’unico porto commerciale della Namibia. Il potente Oceano Atlantico s’era calmato e una fitta nebbia lo copriva al largo e avanzava minacciosamente inghiottendo una nave container della quale si vedeva solo la poppa e si intuiva che una prua doveva pur esserci da qualche parte. Superata la città lasciammo il mare, le dune e l’asfalto e proseguimmo per quasi trecento chilometri su una strada ghiaiosa in mezzo al deserto pietroso. Rari furono i veicoli che incrociammo e tutti erano o camion o fuoristrada. Ma la nostra Toyota Jazz non si lasciò intimorire e stoica proseguì senza tradirci. C’erano tratti dove dovevamo rallentare a trenta chilometri orari se non volevamo lasciare per strada pezzi di vettura. Arrivammo a Solitaire alle otto di sera col buio e provati dalla lunga corsa saltellante.

Al mattino ci svegliammo presto per utilizzare tutte le ore di luce e in un paio d’ore arrivammo al parco di Sossusvlei. Il parco è un mondo deserto di rocce ed enormi dune di sabbia rossa. Attraversammo un paesaggio marziano fino alla mitica duna 45, l’ultima duna numerata dai tedeschi e raggiungibile in auto. Parcheggiammo e scalammo i circa duecento metri di sabbia dura. Oltre la duna c’erano solo altre gemelle che si moltiplicavano all’infinito. Era un quadro bellissimo di due colori, il rosso della sabbia e l’azzurro intenso del cielo. Null’altro. Mi sedetti gambe incrociate in cima ascoltando il silenzio e il mio respiro. Che pace!

Il sole picchiava e ci dirigemmo verso le valli. Parcheggiamo a circa quattro chilometri e ci facemmo portare da una jeep su una strada sabbiosa dove la nostra Toyota Jazz bordeaux non avrebbe potuto fare nulla.

La valle della morte cominciava dove i pochi alberi finiscono. Era un lago di sale bianco crepato dal sole tra imponenti dune rosse. In mezzo a quel lago asciutto c’erano alberi secchi che si diradavano fino a lasciare il vuoto sul lato opposto sotto alla duna più alta. La scalammo e ci trovammo minuscoli in un mare rosso. Là sotto la valle della morte non dava dubbi sull’origine del suo nome. Niente sarebbe potuto sopravvivere lì. Era uno spettacolo terribile e affascinante. Incredibile e bellissimo nella sua durezza e nei suoi colori netti, bianco, rosso, azzurro e il nero degli alberi secchi. L’acqua che avevamo portato con noi fu sufficiente per attraversare la valle e raggiungere l’altra, Sossusvlei. Qui c’era un po’ di vegetazione. Forse l’acqua rimane più a lungo nella stagione delle piogge. In lontananza vidi alcune antilopi e un paio di struzzi che correvano su per le dune rosse verso il nulla spaventate da qualcosa. Segui le orme di uno sciacallo e lo vidi che rovistava tra i cespugli. Disturbato dal atteggiamento da guardone corse via. Anche qui c’era una duna maestosa e il lago di sale bianco asciutto. Fu un altro quadro spettacolare donatoci da madre natura che ci godemmo fino quasi al tramonto. Avrei voluto rimanere lì per ore e ore ammirando la luce che pian piano svanisce dietro all’oceano di sabbia, ma le regole del parco erano rigidi. Fuori dalla scatole al tramonto. Ad alta velocità raggiungemmo l’uscita. Eravamo gli ultimi a lasciare il parco. Era tardi ma ci lasciarono passare senza problemi.

Tornammo a Solitarie e lungo la strada gareggiammo con una gazzella. A sessanta chilometri orari non riuscii a superarla. Non potevo correre più velocemente su quel tratto ghiaioso e pieno di gobbe. Lasciai perdere l’inseguimento quando sull’altro lato della strada qualcosa si mosse e ci passò davanti. Era uno sciacallo. L’inseguimento continuò. Lo sciacallo trotterellava ad un velocità costante non perdendo di vista la gazzella. Non l’avrebbe mai raggiunta, ma avrebbe aspettato che stremata si sarebbe lasciata andare. Non avremmo dovuto intervenire nelle faccende di madre natura, ma non potevamo assistere a quella tragedia e soprattutto avevo un conto in sospeso con gli sciacalli da quanto uno di loro bagnò la nostra tenda. In qualche modo riuscimmo a metterci tra gazzella e sciacallo con l’auto e a spaventare il cacciatore. Col cuore sollevato arrivammo al campeggio col buio, come sempre.

Ripercorremmo gli oltre duecento chilometri di ghiaia e dossi oltrepassando da sud a nord il tropico del capricorno. Ritornammo a Walvis Bay. A Swakopmund pranzammo e proseguimmo a nord tra la nebbia. Arrivammo a Cape Cross dopo un paio d’ore su una strada di sale nero.

A Cape Cross c’è la più popolosa colonia di foche in Africa. Fu uno spettacolo fantastico, nonostante la puzza intensa. I richiami delle foche erano assordanti ed era divertentissimo vedere questi animali così eleganti in acqua, muoversi goffamente a terra scavalcandosi e correndosi dietro. Dormivano l’una sull’altra con i maschi che si facevano sentire di più delle femmine per proteggere il loro harem e il minuscolo territorio. Mamme e cuccioli dormivano teneramente l’uno di fianco all’altro o l’uno sopra l’altro occupando tutto lo spazio possibile. In acqua c’erano numerosi gruppi che nuotavano serenamente sul mare agitato sotto il cielo grigio. Quando cercavano di uscire dall’acqua venivano scaraventate dall’impeto delle onde sugli scogli. Sembrava che ciò non importasse nulla. Senza graffi si arrampicavano con difficoltà aspettando l’onda successiva per darsi l’ultimo slancio e scavalvcare le rocce fino a raggiungere goffamente le altre foche sulla terra ferma che li accoglievano con grida e morsi. Sarei rimasto lì ore e ore ad osservarle. L’intrattenimento offerto era divertentissimo e unico. Dirigendoci verso la macchina notai delle impronte. Erano tracce lasciate da sciacalli e iene, i cacciatori terrestri delle foche.

Giungemmo ai piedi di Spitzkoppie, due bellissime montagne rocciose tra Windhoek e Swakopmund, al buio dopo aver chiesto aiuto ai guardiani di una fattoria che avevamo raggiunto dopo il tramonto sbagliando strada. Incuranti dei dossi, la nostra Toyota Jazz bordeaux ci portò al campeggio. Trovammo posto tra i due picchi del Groote Spitzkoppie. La luna piena splendeva nel cielo e illuminava le vette qualche centinaio di metri più in alto. Le ombre delle rocce creavano figure che la mia fantasia vedeva osservarci e proteggerci. Incontrammo due ragazze olandesi che avevamo incrociato a Solitaire. La Namibia non sembrò così grande quella sera.

Alla mattina io e Franta scalammo quelle rocce in direzioni opposte e ci sdraiammo su delle piattaforme naturali dormendo sotto il sole come due lucertole. C’erano delle antilopi e una specie di marmotta che ogni tanto venivano a trovarmi e che scappavano via non appena accennavo a volerle fotografare. La quiete in quella valle tranquillizzava cuori e anime. C’erano solo pochi turisti che si intuivano dalle auto parcheggiate, ma che non si vedevano. Anche loro avevano cercato e trovato il loro angolo di tranquillità. Fu una giornata passata facendo semplicemente nulla. Alla sera un rosso, ma freddo, tramonto sulla prateria ci salutò ricordandoci che era tempo di continuare il nostro viaggio.

Tornammo a Swakopmund. Consegnammo a malincuore la nostra compagna di viaggio bordeaux e acquistammo il biglietto per Livingstone, Zambia, con la solita Intercape nonostante i gospel. Mentre salivo sull’autobus mi chiedevo quand’è che avrei visto l’altra faccia dell’Africa. Fino a quel momento Tutto era bello, organizzato, pulito in Nambia, e anche in Sudafrica in certe zone. Non avevo ancora visto la povertà e la vita fuori dalle città e avevo viaggiato in due Paesi relativamente ricchi. Non sapevo cosa aspettarmi. Sarebbe stata un’altra India? Peggio o meglio? E la gente? E il cibo? Forse semplicemente sarebbe stata Africa.