Pushkar, il lago asciutto

Il lago di Pushkar viene pulito ogni venti, trent’anni e questo era l’anno giusto!
Arrivammo dopo un viaggio di cinque in un autobus con venti posti passando via Ajmer e scavalcando una collina rocciosa piena di tornanti dove delle scimmie ci davano il benvenuto sedute sui parapetti. Lungo la strada ci accompagnava il color ocra e terra arida. Non faceva caldo, ma fortunatamente andavamo lontano dal freddo di Delhi e del Punjab.

A Pushkar non ci sono risciò! L’unico mezzo per spostarsi sono le proprie gambe o affittare uno scooter. Pensai a questo con sollievo e credetti che all’arrivo non saremmo stati assaliti dagli acchiappa turisti. Mi sbagliavo. Ovviamente ci stavano aspettando dove l’autobus si sarebbe fermato. C’era un po’ di confusione perché una signora greca sosteneva che quella non era la solita fermata dell’autobus, e che lei veniva lì da diversi anni e che solitamente alla fermata lei prendeva un risciò per andare in albergo. Ma di risciò non ce ne sono a Pushkar… Perciò mi chiesi a che città si riferiva o se stesse ancora dormendo e sognando.

Seguimmo un acchiappa turisti e fummo fortunati. Alloggiammo all’Hotel Everest con un ristorante sulla terrazza del tetto con una bella vista sul lago, asciutto, e su Pushkar, dove al calar del sole passavano quasi ogni sera delle scimmie nel loro peregrinare da un tetto all’altro.

Scesi sui gath a vedere le poche persone che facevano il bagno di rito in delle piscine preparate appositamente. Il lago era prosciugato e c’era ben poco di spettacolare. Dove c’era acqua ora pascolavano mucche. Incontrai un ragazzo, Pintu, che indossava un vistoso crocifisso al collo. Parlava un curioso inglese pieno di “okè, okè” e “coming, coming”. Gli chiesi se era cristiano. No, portava il crocifisso perché gli piaceva ed era alla moda. Non mi sarei aspettato di vedere il simbolo cristiano come qualcosa di “figo”, ma in India hanno un interesse profondo in tutto quello che è religioso e a volte capita di trovare un’immagine della madonna o di Gesù insieme a un Ganesh o altra divinità induista. Tutto quello che è religione, rituale e tradizione esercita fascino in un popolo dove il divino ha un posto preminente nella vita delle persone. Ogni giorno, soprattutto nelle città più piccole, vedevo indiani che andavano al lavoro in giacca e cravatta con un segno colorato sulla fronte. Era una benedizione per la preghiera mattutina. E per questa profonda religiosità, Pintu portava il crocifisso al collo. Ovviamente non vidi mai, dico MAI, un induista con la mezzaluna al collo. Il cristianesimo è ben accetto in India, oggigiorno non ci sono scontri e si può vivere tranquillamente la propria religione. Nel pout pourì religioso indiano ci si perde, ma è sicuramente una parte complessa e interessante da scoprire avendone il tempo.

Pensai che Pintu volesse soldi facendomi da finto amico-guida e invece mi sbagliavo ancora. Mi portò oltre il lago su per la collina opposta al nostro albergo fino al tempio di un baba ora defunto a porgere gli omaggi per un buon auspicio. La scalinata era dipinta di bianco e si vedeva benissimo dalla nostra terrazza. Al tempio c’erano dei pellegrini che si riposavano sotto il sole. All’inizio della salita e della discesa Pintu si abbassò fino a sfiorare lo scalino e si mise a battere le mani, era un gesto simbolico per avvisare che stava passando e che gli insetti facevano bene a spostarsi per non finire schiacciati.
Scesi circumnavigammo il lago nei canali per il trasporto d’acqua ora vuoti. Venivamo superati da dei trattori che trasportavano manovali e che si sentivano a centinaia di metri a causa della loro musica sparata a tutto volume.

Completando il cerchio e scalando un gath dal lago secco venimmo subito bloccati da un sacerdote che voleva a tutti i costi che io facessi un rito di buon auspicio per me, la mia famiglia, i miei amici, e tutti quelli a cui voglio bene. Pregai ripetendo meccanicamente quello che diceva lui trattenendo una risata. Ero ridicolo nell’eseguire per semplice curiosità senza nessun credo quella litania. Ridicolo era pure il sacerdote che voleva che io lo facessi. Come può un non credente pregare soprattutto quanto non vuole e lo fa per curiosità? Se fosse la mia religione mi sentirei offeso da chi si comporta in questo modo scherzoso con una cosa così profonda come può essere un atto di fede. Mi riferisco sia a me, ma soprattutto al sacerdote che arrivò finalmente al dunque:
“ Ci sono 52 gath a Pushkar centinaia di sacerdoti. Se vuoi puoi lasciare un offerta.” Ecco, soldi.
Le parole di Hamed ad Esfahan risuonarono nella mia testa “La religione è un bazaar.”

Lasciai 5 rupie, per il fiore che mi avevano dato e il braccialetto al polso. Penso si aspettassero qualche centinaia e rimasero delusi. Insistettero per più soldi, ma Pintu intervenne e disse che in realtà non DOVEVO lasciare nessuna offerta. Se avessi lasciato più di cinque rupie (il prezzo di un chaj) mi avrebbe bloccato. Continuò a dirmi che non dovevo dare soldi a nessuno. Visitammo altri gath e Pintu faceva da filtro. Mi disse che un sacerdote gli aveva offerto la metà del compenso se lo avesse aiutato a convincermi a pagare “un’offerta d’entrata” al gath, ma lui rifiutò e lo scavalcammo. Grande Pintu!
Lungo la strada verso l’Hotel, il mio amico-guida-senza-secondi-fini mi fece passare vicino ad un banchetto dove davano da mangiare degli snack indiani gratuitamente. Davanti all’albergo ci congedammo. Un altro addio per un incontro di un giorno.

Visitai il tempio di Brahama, uno dei pochi in India, nonostante Brahama sia la figura forse più potente e importante delle tre divinità maggiori, Shiva, Visnu e, appunto, Brahama. Andavo in giro da solo, perché Franta non stava bene e ne approfittai per poter andare a mangiare nei ristorantini indiani come gli indiani. Mi abbuffai di Tahli, piatto unico con riso o chapatti e salsine a volontà. Mi stavo lentamente “indianizzando”, almeno per il cibo.

Sotto il tempio, al ristorantino sulla strada, chiacchierai con dei ragazzi che frequentavano la scuola per diventare sacerdoti. Si parlava del più e del meno e mi sembravano ragazzi normali e non particolarmente votati alla religione, in particolare quando due di loro tirarono fuori le sigarette e dopo averle srotolate, ne arrotolarono altre con una piccola aggiunta. Mi feci portare da uno di loro in moto al mio albergo schivando mucche, cacca di mucca, cani, passanti, turisti e buche a non finire.

L’ultimo giorno scalai la collina a destra del nostro albergo, dove in cima c’era un tempio e da dove si godeva una vista invidiabile. Mentre attraversavo le calli della città per uscire e arrivare all’inizio della salita fui seguito da dei cani che cominciarono a ringhiare e abbaiare aggressivamente nei miei confronti. Erano quattro. Ebbi un attimo di timore nonostante avessi l’antirabbica non mi andava di venire morso da dei cani. Mi girai di scatto, urlai più forte di loro, feci il gesto di tirare la mia macchina fotografica che avevo in mano sporgendomi verso di loro. Si fermarono e arretrarono, ma non mi lasciarono fino a che un vecchietto uscito di casa con un bastone si mise a picchiare forte per terra. Prosegui sollevato e maledicendo quei cani e mi trovai la strada bloccata da una mucca che aveva deciso di fare una siesta in mezzo alla viuzza. Le scivolai accanto assottigliandomi ed ebbi appena il tempo di superarla che nel suo stato catalettico cerco di darmi un’incornata. Non era la mia giornata con gli animali.

Alla base del colle roccioso trovai una donna che mi affidò il pasto da portare fin sopra al tempio per suo figlio Rajeev. Come rifiutare e risparmiarle la scalinata? Arrivato sopra, Rajeev mi aspettava. Pensai che Rajeev e sua madre fanno la stessa storia tutti i giorni.

Franta peggiorò dal primo giorno e passò otto giorni a Pushkar. Io rimasi quattro giorni e mi stavo sciogliendo dalla noia. Quando Franta migliorò mi disse di proseguire da solo per Bombay dove i miei amici mi aspettavano. Ci saremmo visti lì e avremmo proseguito per Goa insieme.
Mi schiacciai dentro un autobus pubblico per Ajmer e presi il treno che dopo sedici ore mi avrebbe fatto arrivare a Bombay dove Heena sarebbe venuta a prendermi.

Il tratto in treno fu piacevole. Ero nel vagone letto con altri cinque indiani mussulmani che salutai con le mie solite due parole che mi trascinavo dal Pakistan. Erano simpatici e ospitali. Mi offrirono i dolcetti della mamma, una banconota scaduta da due rupie e alla mattina la colazione a basa di “idly”, polpettine di riso con una salsa speziata che avrei apprezzato molte altre mattine. Un ulteriore passo avanti nella mia esperienza culinaria indiana che tanto detestai quattro anni prima e che in questo viaggio fu una continua rivelazione.