11.01 Coprifuoco a Johannesburg

Della mia esperienza in Sudafrica salverei solo il Capo di Buona Speranza. Il primo impatto, ad esser sinceri, fu positivo, poi grattai sotto la superficie e vidi un Paese pieno d’odio.

Cambiai stagione in una decina di ore. Presi il volo prenotato un anno prima a Helsinki per Johannesburg con scalo a Istanbul. Era un volo Turkish Airlines, compagnia con la quale ho avuto solo ottime esperienze. Siccome volavo in Sudafrica durante i Mondiali di Calcio, avevo temuto di non trovare posto o di dover pagare un prezzo esorbitante, e per questo motivo acquistai il biglietto ancora prima di iniziare il mio viaggio mettendo, ahimè, dei paletti da rispettare.

Sarei rimasto in Asia più che volentieri, ma ora avevo davanti a me il continente nero coi suoi problemi e le sue bellezze da esplorare.

All’aeroporto di Johannesburg la macchina dei mondiali era in moto da tempo. L’accoglienza fu piacevole e calorosa. Tutto era pronto e sembrava funzionasse bene. Due anni prima parlai con un ex-collega sudafricano, un ingegnere della Rockwell che tra una birra e un’altra era pessimista sui preparativi e sulle tempistiche. Sembrava essere smentito da quello che vedevo. C’erano uffici informazioni e qualsiasi genere d’assistenza per ciò che riguardava il calcio. Tutto era bello, pulito, nuovo e in ordine. Ogni tanto si sentivano le vuvuzela strombettare il loro fastidioso canto. Dappertutto c’erano addetti alla sicurezza o assistenti che fornivano informazioni. Ovunque si vedevano tifosi con magliette e scarpette colorate. Ritirammo i biglietti increduli per tanta efficienza confrontata con le mi aspettative. Ero veramente in Africa?

Nel treno che ci portò a Standon la gente ci chiedeva quante partite avremmo visto. “Ben due”. Rispondevamo orgogliosi. “Ah, solo due…” era il commento più comune “noi siamo già stati a due partite e ne andremo a vedere altre tre, forse quattro o cinque.” C’era competizione per chi andava più spesso allo stadio. Ma quanti soldi aveva questa gente che veniva da tutto il mondo? Il biglietto più economico costava 80 dollari, cinque partite, almeno 400 dollari, più vitto, alloggio e volo transoceanico… in India con la sola cifra destinata ai biglietti avrei vissuto per un mese.

Il costo di qualsiasi cosa in Sudafrica mi prese alla sprovvista. Ero consapevole che l’Africa è più costosa dell’Asia da dove venivo, ma non ero ancora pronto e confrontavo tutto con India e Cina. Ogni volta il morale scendeva sotto i piedi.

Ci vuole tempo per abituarsi al costo della vita quando si arriva in un nuovo Paese, soprattutto se si passa da uno poco costoso a uno con i prezzi elevati quanto in Europa. Di mezzo ci si mette pure la moneta differente con tassi di cambio che rendono impossibili divisioni o moltiplicazioni semplici come ad esempio 7,3 o 6,7. Come fai a calcolare se non ad occhio? Decidevo se pensare in euro, dollari o corone ceche in base alla semplicità di calcolo. Appena mi abituavo ad un cambio e al costo del cibo e dell’acqua, lasciavo il Paese.

A Standton prendemmo l’autobus S6 per Rosebank. L’autista ci fu molto d’aiuto indicandoci la strada dell’ostello chiedendo a persone del luogo e ci avrebbe portato col suo mezzo se non fossimo stati già in ritardo sulla sua tabella di marcia.

Il nostro ostello si trovava in un quartiere di lusso con palazzi moderni, case con giardino e un enorme centro commerciale. Era questa l’Africa?

L’ostello era pieno di stranieri venuti per il mondiale e ognuno sapeva tutto di tutti i giocatori, mimava tutte le giocate più spettacolari, si estasiava per i gol più belli e si dimostrava allenatore criticando la disposizione in campo di ciascuna squadra. Io avevo visto solo le partite dell’Italia. Dovevo assolutamente eliminare il gap al più presto.

Il primo giorno filò tutto liscio. Andai in giro per il quartiere di Rosebank, ma non c’era granché da vedere. Il punto di riferimento era il centro commerciale, come a Standton tutto girava attorno ai consumi. L’enorme macchina mangia soldi non aveva nulla a che invidiare agli standard europei, a quei centri commerciali pieni di negozi, di gente coi carrelli pieni, di promozioni e striscioni con giovani addetti alle vendite che ti vogliono far provare l’ultima novità senza la quale non si può vivere, si è “out”. Ovviamente c’erano ristoranti e bar, dai prezzi ignominiosi. La popolazione era variegata: bianchi benestanti, neri benestanti, indiani benestanti, tutti tranquilli in quell’oasi di sicurezza che li isolava e proteggeva dal mondo che stava non molto lontano e che vedeva il loro benessere con rabbia e invidia che alimenta la violenza e l’odio e che si trasformava in crimini quotidiani, ma fuori dal centro commerciale.

Cominciai a capire. A Johannesburg e in tutto il Sudafrica vigeva un tacito coprifuoco al calar del sole. Se si gira per strada al buio c’è il rischio, o la quasi certezza, di essere derubati. Era già successo a parecchi stranieri di essere rapinati anche nel quartiere “sicuro”.

In giro per le strade di Rosebank c’era un cartello che pubblicizzava “l’aumento delle dimensioni del pene per un successo garantito”. Risi di gusto. Fu una sorpresa trovare una pubblicità così esplicita e diretta per strada. Forse era diretto ai bianchi sull’onda del mito delle dotazioni naturali dei neri? Chissà… a me sembrava una pubblicità paradossale in un Paese dove tra i vari problemi hanno quello dell’AIDS e delle violenze sessuali.

Joburg non piaceva a nessuno. Non c’è nulla da vedere e bisognava prendere un costosissimo taxi per spostarsi ed è una città pericolosa. Sole le zone dove girava la macchina da soldi del mondiale di calcio erano sicure, insieme ai centri commerciali come fossero un isola felice in un mare di delirio. Ero in prigionia nell’ostello. Faceva freddo essendo inverno e non c’era il riscaldamento . Molti s’erano già presi un forte raffreddore.

Dopo la seconda partita, Italia-Slovacchia, non c’era più alcuna ragione per rimanere in una città che ti invitava a scappare. Non ci pensammo due volte e con Franta decidemmo di prendere l’autobus per Durban, lontano da Joburg con la speranza di trovare una città più amabile e un po’ di sole e calore.
Prenotammo l’autobus con la linea SA Roadlink. Quando andammo a pagare prima della partenza il prezzo era aumentato, ma non c’erano alternative e a quanto pare a loro interessava poco se il cliente fosse soddisfatto o meno. Prendere o lasciare. Pagare di più o rimanere a Park Station. Già arrivare alla stazione fu un incubo, perciò pagammo con tanta rabbia dentro.

L’incubo fu solo colpa nostra. All’ostello chiedemmo informazioni su come giungere alla stazione degl’autobus. “Prendete un taxi” questo era il ritornello cantato da tutti. Nessun bianco si sarebbe sognato di rischiare la vita prendendo uno dei tanti minibus che fanno la spola attraverso la città. “Prendete un taxi” era il consiglio reputato ovvio da tutti. Non c’era un’alternativa nella loro logica di ragionamento. Ci raccomandavano il taxi per la nostra sicurezza. Noi eravamo appena arrivati dalla Cina e dall’angolo dell’Europa tra Russia ed Estonia dove i mezzi pubblici sono un modo sicuro ed economico di viaggiare. Suvvia, pensai, non potrà essere più pericoloso di Quetta e del Balucistan.
Nessuno degli stranieri aveva mai preso il minibus per andare alla stazione, ma insistendo uno dei dipendenti neri dell’ostello con riluttanza ci spiegò come arrivarci: “Mettetevi sul lato della strada e indicate “uno” con le dita. Un minibus si fermerà prima o poi.”

Era già buio e nessun veicolo accennava a rallentare. Forse due bianchi che cercavano di fermare un minibus alla sera era un comportamento sospetto. Stavamo per tornare all’ostello e chiedere un taxi quando un angelo ci venne a trovare. L’angelo in questione era una signora nera, un po’ grassoccia e dai movimenti impacciati. Avrà avuto circa cinquant’anni e aveva appena terminato la sua giornata di lavoro come collaboratrice domestica presso una coppia di bianchi, lui italiano, lei sudafricana. Aveva in testa il classico turbante che indossano tutte le donne africane e un cappotto pesante per combattere il freddo inverno di Joburg sotto il quale compariva una gonna lunga dai colori sgargianti anche al buio. “Prendete un taxi” fu la prima cosa che ci disse non appena le spiegammo le nostre intenzioni e perché eravamo per strada alla sera da soli. Capì che non avevamo soldi e siccome la sua direzione era anche la nostra, fermò un minibus e salimmo in direzione Park Station.

L’angelo si preoccupò che noi pagassimo il giusto prezzo locale e nulla di più. Spiegò all’autista dove dovevamo essere fatti scendere. Non ci sono minibus che vanno direttamente a Park Station, avremmo dovuto attraversare il parco a piedi. E che ci vuole? pensai, non sarà mica così lontano. Non era la distanza la preoccupazione della signora, ma la zona che noi, inconsciamente, volevamo e dovevamo attraversare per arrivare in stazione.

L’autista del minibus si offrì come tassista fino alla stazione, ma noi rifiutammo. L’angelo traduceva e capì che quei due stranieri bianchi non avevano la più pallida idea di come sopravvivere a Joburg. Ci fermammo ad una pompa di servizio e fummo fatti scendere velocemente. L’autista ci indicò la strada. “Seguite sempre dritti. Non fermatevi e camminate velocemente.” Mi guardai attorno. Deglutii con difficoltà. Eravamo in una zona con poca luce e c’era un brulicare nervoso di gente su un viale sporco dove un mercato aveva appena chiuso. Gli edifici che si intravedevano nella precaria illuminazione erano fatiscenti. Qua e là un fuoco. Appena il minibus partì al suo posto comparve l’angelo che aveva deciso di scendere e ritardare il rientro a casa per accompagnarci.

“Seguitemi e non fermatevi a parlare con nessuno. Qui c’è gente un po’ strana”. Ehm, va bene.
A passo spedito attraversammo quel viale. Attiravamo sguardi increduli, come se una gazzella andasse a chiedere informazioni ad un leone. La gente smetteva di fare quello che stava facendo, solitamente pulire, fumare, o nulla, al nostro passaggio e ci osservava curiosi. Le occhiate non erano di quelle benevole. Poi notavano la signora e rimanevano interdetti quel tanto che bastava per uscire dal loro radar col nostro passo celere. Ad un incrocio dovemmo fermarci per lasciare passare le auto. Da una di esse uscì un mozzicone di sigaretta ancora acceso. Un ragazzo si gettò in mezzo al traffico rischiando seriamente di essere investito da due clacson che gli sfrecciarono accanto per lo meno assordandolo. Se una persona mette in pericolo la sua vita in quel modo, che valore può dare alla propria? E a quella degl’altri? E alla nostra? Un altro si lanciò su di noi cercando di avvicinarsi sempre più e mettendo le mani sul mio zaino. L’angelo intervenne dicendogli qualcosa e portandoci via. Era la nostra guardia del corpo che caccia via chi voleva avvicinarsi. Pensai che le persone credevano che siccome eravamo con lei, eravamo sui clienti e che le avevamo dato o promesso dei soldi per farci da guida. In qualche modo ebbi l’impressione che per rispetto alla signora non osavano avvicinarsi quanto i loro occhi e le loro mani avrebbero voluto. Mi sentii più a disagio in questa situazione che la notte passata a Quetta.

Giungemmo sani e salvi alla stazione. L’angelo salutò e tornò a casa dai suoi figli, già grandi ma senza lavoro. A oltre cinquantenni era ancora lei che manteneva la famiglia. Un angelo, punto.

Attendemmo l’autobus guardando Spagna-Cile su un maxischermo che interrompeva la partita ogni 5 minuti con pubblicità assurde e mangiando pollo fritto ad un fast food. Tra una patatina e un’ala di pollo vennero tre bianchi a chiederci se avevamo dei spiccioli da dargli. No. Erano passati i tempi dell’apartheid e ora anche tra i bianchi c’era chi andava in giro a chiedere soldi. O forse era così anche prima. In fin dei conti i soldi per farti una dose o comprarti dell’alcol non te li dà il portafoglio di babbo.
Ci mettemmo in coda per prendere il nostro autobus col prezzo maggiorato. L’ultima novità della SA Roadlink era che avevano venduto più biglietti dei posti a disposizione. Noi e un'altra trentina di neri incazzati dovemmo aspettare un’ora per un altro autobus. Alla fine andava bene così, saremmo arrivati un’ora dopo a Durban e siccome il viaggio era notturno, avevamo la possibilità di arrivare con la luce e non prima del sorgere del sole. Mentre aspettavo annoiato l’autobus e rifiutavo di dare dei soldi per la quarta volta ad una ragazza bianca, scambiai due parole con un ragazzo nero che attendeva pure lui. Oltre a elencarmi le bellezze della zona e come prendere posto in autobus (sedersi dove c’è posto in quanto non c’era alcuna numerazione), mi elargì un consiglio gratuito e importante “Quando arrivi in città, comportati come se fossi uno del luogo. Non dare nell’occhio. Non far vedere che sei un turista. In questo modo eviterai dei potenziali problemi.” Grazie.