Around Yazd, Christmas in Iran

Il deserto sgranocchiava i mattoni di fango secco della città di Karanaq. Lo faceva centinaia d’anni fa’ e lo continuerà a fare fino a che non resterà solo sabbia. Gli uomini abbandonarono questa città in pieno deserto montuoso e la trasformarono in un luogo turistico sulla via per Chak-Chak e Meybod. Ora la città si vendica aprendo i pavimenti delle case e inghiottendo turisti a caso. Sembra che i preferiti siano tedeschi e francesi.

La città deserta nel deserto ci affascinò oltre ogni aspettativa. Ritornammo bambini per un’ora correndo e arrampicandoci tra tetti semi distrutti, muri crollati, pavimenti bucati, edifici pericolanti che si tenevano su a vicenda. Eravamo presi da un euforia fanciullesca come non ci capitava da molto tempo.
Nel labirinto di stradine irriconoscibili e indistinguibili mi persi. Probabilmente perdersi fu una delle cose che ci riuscì meglio in questo viaggio.
“Franta, Franta! Dove siete?” Franta mi aspettava con la guida a bordo del veicolo e pensava che mi divertissi. Mi stavo divertendo fino a quel momento… Vidi la torre del paese abbandonato e cercai di orientarmi pensando ad un immaginario filo d’Arianna che mi condusse all’uscita.

Visitammo Chak-Chak, un luogo isolato inerpicato su per le montagne desertiche che è considerato luogo di pellegrinaggio per i Zorastriani. Sembra che una principessa scappando all’invasione Araba si rifugiò in questo posto introvabile da altri e gettò il suo scettro tra le rocce da dove sgorgò un fonte d’acqua. La vista che godemmo da lassù premiò l’arrampicata fino al tempio. Meybod era un’altra città con una altra fortificazione costruita con altri mattoni fatti di fango secco che ora si sgretolava. C’era pure un museo del tappeto persiano dove un addetto a richiesta mostrava l’utilizzo dei macchinari per la tessitura e si metteva in posa per la foto di rito.
“Tessitura doppia. Si tirano le corde selezionate per quel tratto di figura, attraverso questi si fa passare il filo di lana colorata,” spiegò la guida che con un rapido gesto della mano lanciò il filo di lana blu da una parte all’altra “lo si batte un martelletto di legno in modo che i fili siano ben tirati e fitti l’un sull’altro, si tirano ancora con apposite leve le corde per il disegno e si ricomincia da capo con i fili colorati.”

Alla fine della giornata ci facemmo portare alla fermata dell’autobus dove dopo un paio di cambi avremmo dovuto raggiungere una fredda grotta di un hotel per poter passare la vigilia di Natale in modo speciale. Anche se lontani da casa era difficile abbandonare totalmente le nostre tradizioni che sono parte di noi. In un Paese islamico, dove la religione è parte integrante della vita delle persone e del governo dello stesso, ci sentivamo in dovere di ricordare le nostre origini, magari solo per essere irriverenti in casa altrui.

Continuammo a riflettere per un paio d’ore alla fermata nella periferia di Yazd. L’autobus che doveva passare frequentemente nella nostra direzione non s’era visto, e molte persone, rassegnate aspettavano. Avemmo tempo di mangiare un hamburger e Franta si prese degli spaghetti che arrivarono dentro ad un panino. Giuro di non aver mai visto nulla di simile in vita mia. Pensavo che la pasta col ketchup fosse il massimo del sacrilegio culinario, ma, evidentemente, mi sbagliavo. Comparammo mandarini, e dolci per il viaggio mentre aspettavamo.

Una Nissan Patrol verde si fermò e feci segno a Franta che sarebbe stato comodo avere un’auto così per viaggiare attraverso l’Iran. Forse qualcuno era in ascolto e dall’auto che s’era fermata per una breve sosta, scese un ragazzo che si avvicino parlandoci in inglese.
“Hello, how are you?” esordì il ragazzo con la solita frase d’apertura. Eravamo già pronti all’interrogatorio che di solito segue. Forse avremmo dovuto preparare un documento con la nostra breve biografia da distribuire a questi improvvisati intervistatori, ci avrebbe risparmiato tempo e a volte qualche noia, ma avremmo mancato dei miracolosi incontri come quello.
“Dove andate?”
“Andiamo a…” e gli mostrai la piantina perché non riuscivamo a pronunciare il nome.
“Se volete vi possiamo dare un passaggio. Noi andiamo nella stessa direzione.”
Problema risolto. Non avremmo dovuto aspettare l’autobus, cercare disperatamente un posto, fermare taxi, negoziare prezzi, perder tempo. Avremmo avuto un passaggio diretto fin dove volevamo in un comodo mezzo. Beh, almeno era quello che ci aspettavamo dalla jeep, ma ci sbagliavamo. Non saremmo mai arrivati dove volevamo, era la vigilia di Natale a guidarci.

In auto erano già in cinque carichi di valigie, con noi il numero salì a sette, il padre, la madre e la figlia davanti, io, Franta, e i due figli dietro con il bagagliaio che esplodeva dopo aver aggiunto i nostri zaini. Ovviamente l’unico che parlava inglese era il figlio di 17 anni, Hassan, che fungeva da interprete per le mille domande della madre. Il viaggio fu più lungo di quanto ci aspettassimo, perché l’auto aveva dei problemi e avanzavamo a passo più lento degli autobus ad una velocità che era impossibile definire perché il conta chilometri era fuori uso. Cominciammo a mostrare in giro le nostre foto digitali dei luoghi visitati, ma non erano interessati. Volevano vedere solo fotografie dei nostri Paesi d’origine che non avevamo portato con noi nonostante i terabyte di memoria che Franta doveva portarsi dietro come minimo indispensabile. Alcune foto suscitavano il loro interesse e pure il padre al volante voleva vederle. La cosa ci preoccupava soprattutto quando il motore emetteva dei strani lamenti come avesse dei dolori di stomaco e dopo che Hassan, preoccupato pure lui, ci disse che suo padre aveva avuto un incidente con quell’auto appena due settimane prima.

Franta era stanco e ero io a tenere viva la conversazione a volte con domande banali e ripetute, ma bastava per tenerli vivi.

Stavano tornando alla loro città d’origine, Sirjan, a trovare l’altro figlio che era sposato e che era rimasto lì con sua moglie, mentre il resto della famiglia s’era spostata a Yazd. Ci avrebbero lasciati lungo la strada da dove avremmo proseguito per la nostra grotta. La madre si chiamava Maria, come mia madre, e ci disse che c’era una grande statua di Maria ad accoglierti all’entrata della loro città. Inaspettatamente ci fecero gli auguri di Buon Natale dopo esserci fermati ad una stazione di servizio con una grande moschea che distribuiva tea gratuitamente come sono soliti fare e mentre ci nutrivano di patatine, semi di girasole, di arachidi e di qualsiasi altro tipo di semi per criceti ci invitarono a cenere e a passare la notte con loro.

Entusiasti accettammo subito. Avremmo cambiato ancora una volta il nostro piano, ma oramai era diventato una cosa ordinaria.

A casa loro eravamo un po’ imbarazzati. Non sapevamo come comportarci a tavola. Tavola non sarebbe proprio la parola corretta da utilizzare, poiché cenammo in perfetto stile iraniano seduti per terra a gambe incrociate. Stesero sul tappeto persiano nella sala da pranzo una tovaglia e portarono le pietanze. Ovviamente ci sedemmo uomini da una parte e donne dall’altra con i due genitori a delimitare i confini. L’unica eccezione era il figlio sposato, padrone virtuale di casa, che si sedette con la moglie dalla parte delle donne senza tuttavia parlare molte durante tutta la serata. Ci servirono il piatto preferito di Franta, pollo e riso e ci avventurammo sull’insalata e le varie salsine. Hassan si prendeva cura di noi sotto le direttive della madre che, oramai era chiaro anche a noi, era la vera padrona di casa sua e di casa di sua marito, anche se in pubblico doveva lasciar parlare il marito, insegnate alle elementari in pensione. Evitammo figuracce e per il dessert tirammo fuori i dolci che comprammo alla fermata dell’autobus, una specie di torrone che chiamano gaz. Stavolta fummo noi a sorprenderli. Non si aspettavano affatto che due viaggiatori andassero in giro con una confezione di gaz, ma non conoscevano la passione per i dolciumi che oramai s’era impossessata di noi in Iran a causa di tutti quei dolci messi in esposizione nei negozi.

Non ci scambiammo regali. Franta non cenò con la carpa fritta, e io non potei abbuffarmi di pesce e sfidare a calcio balilla i miei amici, ma fu una serata speciale trascorsa insieme a delle persone semplici che ci fecero assaporare l’ospitalità iraniana e provare il calore di una famiglia unita adottandoci per una notte, la notte di Natale. Non poteva finire altrimenti visto che la madre si chiamava Maria!

Dopo cena e dopo il tè la sala da pranzo diventò camera da letto per uomini, mentre le donne si sistemarono nella camera da letto. Il padre ci indicò chiaramente che dovevamo dormire con i nostri pantaloni lunghi e così facemmo.

Il giorno dopo la famiglia si prese ancora cura di noi. Hassan e il fratello ci portarono in giro. Sirjan non è una città molto interessante, ma i nostri amici ci portarono ad un speciale pranzo di Natale per noi. Gli Sciiti festeggiano dieci giorni in ricordo dell’uccisione dell’Imam Hossein. In questi dieci giorni la gente scende per le strade in processione e con piccoli religiosissimi flagelli si colpisce la schiena o si colpisce il petto con il pugno a ritmi religiosi stabilito da tamburi ancora più religiosi seguendo un religioso megafono da dove provengono brani del corano.

Durante i pasti la gente si riposa e si ritrova tutta insieme nei luoghi dove normalmente si studia e discute la dottrina sciita. In uno di questi luoghi colorati di verde e nero con immagini del profeta ovunque avremmo avuto il nostro pranzo. Intimiditi e con la sensazione di essere totalmente fuori luogo entrammo in questa comunità. L’accoglienza fu calorosa e fummo trattati da ospiti speciali. Pensai che in quella città, sconsigliata da Lonely Planet, non avessero incontrato alcun occidentale, e per giunta accompagnato a pranzo durante le celebrazioni.

Doveva essere un momento unico per quella città e noi eravamo al centro di esso. Nell’enorme salone ci sedemmo per terra spalle al muro e un lungo telo venne steso sui tappetti. Il riso che avevamo visto cuocere quando visitammo le cucine con il responsabile dell’organizzazione dell’evento venne distribuito e mangiamo tra una crescente curiosità. La gente veniva a darci il benvenuto, a stringerci la mano, a farsi fotografare e alla fine una marea incontenibile di bambini vennero a chiederci l’autografo! Volevano che firmassimo qualsiasi cosa, dal contenitore del cibo, alla maglietta, alla mano, ovunque pur di avere il ricordo di quei due stranieri che venivano da non si sa dove, ma che non doveva essere l’America. Prima che la situazione diventasse insostenibile, ci scortarono fuori e ci fecero salire sulla Nissan Patrol, che scoppiettando ci portò nuovamente a casa.

Ebbi modo di rendermi ridicolo al momento del tè, quando cercai di appallottolare sul palmo della mano una specie di zucchero a velo e farlo saltare in bocca imitando i locali e puntualmente feci scivolare tutto sulla mia maglia, sul divano e sul tappeto. Tutti risero e mi servirono un’altra porzione e stavolta esegui l’operazione con successo.

Ci accomiatammo verso sera. Prendemmo l’autobus per Bam, dove saremmo arrivati la notte.
L’idea di condividere il pranzo di Natale con la comunità sciita in Iran, era l’ultima delle cosa che mi sarei aspettato da questo Paese, ma la gente comune è diversa. Se solo la politica, i governi, le autorità religiose si comportassero come la maggior parte della gente comune che vuole solo pace, serenità e che tratta il prossimo con ospitalità e amicizia, forse, penso che, forse, si vivrebbe un po’ meglio in questo mondo.