Teheran
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In Iran volevamo viaggiare prendendo solo mezzi pubblici, o quasi, e a Teheran fu più facile del previsto utilizzando la metropolitana.
A Teheran ci sono tre linee della metropolitana costruite recentemente per combattere il traffico crescente di questa megalopoli da oltre 18 milioni di abitanti, altre due sono in costruzione e altre nel piano del governo iraniano.
Appena arrivati ci impuntammo nel prendere la metropolitana nonostante dovessimo camminare per un chilometro e i taxi erano lì pronti e rapirci per portarci in centro in qualche costoso hotel. Resistemmo alla tentazione e raggiungemmo la stazione della metropolitana chiedendo una decina di volte lungo la strada a svariata gente che, pur non parlando inglese riusciva a capirci e a indicarci il percorso da seguire. Cercammo sulla piantina la fermata per la piazza Khomeini da dove saremmo riusciti a raggiungere la guest house che avevamo visto nella lonely planet e che faceva al caso nostro.
Impiegammo un po’ a capire che la fermata si trovava sotto il mio dito che avevo piazzato sulla mappa come punto di riferimento. Occupando molto spazio con i nostri zaini riuscimmo a spingere e ad aprirci un varco tra i passeggeri desiderosi di salire per primi senza pensare che gli altri devono scendere per fare spazio all’interno, per poi scoprire che tutti si accalcavano all’entrata in una smania inspiegabile di entrare prima degl’altri nonostante di posto ce n’era per tutti, anche per la gente che preferiva sedersi a terra.
“Come cavolo contano i soldi in questo Paese?” Franta era ancora disorientato dalla moneta usata in Iran e da come la gente contava i soldi. Ci venne in aiuto uno studente che ascoltava le nostre stupidità dovute alla stanchezza e non solo.
“In Iran i soldi stampati e la moneta ufficiale è il Rial, però da noi la gente di solito conta in Toman dividendo l’ammontare per dieci. Quindi 10.000 Rials sono 1.000 Toman, semplice no? Immagino vi sarete già accorti di questo e del fatto che dovete andare in giro con pacchi enormi di Rials visto che un milione di rials sono appena cento dollari. Oh, scusate intendevo centomila Toman.”
La nostra testa era già entrata in un circolo infinito di Toman e Rials, Rials and Toman. Saremmo riusciti a venirne a capo in un paio di settimane, giusto prima di entrare in Pakistan.
Non avendo letto molto a proposito di Teheran, per me la capitale era una città viva, ricca di monumenti e storia. Nulla di più sbagliato. Avrei dovuto prepararmi un po’ di più, ma non è una delle nostre qualità migliori. La città è un agglomerato di cemento di recente costruzione che graffia le pendici del Damavand con i sui 4000 e rotti metri dove il boom demografico si fa’ vedere in architetture senza alcun interesse per me e posti da visitare limitati. Approfittammo per ambientarci un po’ in questo nuovo mondo fatto di motociclette rumorose, traffico caotico e gente delle grandi città che ti passa accanto correndo verso non si sa dove, ma deve farlo velocemente.
Trovare la nostra Guest House non fu facile senza una mappa chiara e indicazioni solo in farsi. Avevamo un indirizzo recuperato dal nostro corano turistico, lonely planet, e riuscimmo ad arrivarci chiedendo ai passanti fino a che un ragazzo di un ristorantino fu spedito dal proprietario ad accompagnarci direttamente davanti alla porta. La nostra stanza era vecchia e aveva bisogno di un elettricista e un imbianchino, ma i letti erano almeno comodi e avevamo un lavandino, mentre per la doccia e i nostri bisogni dovevamo usare il bagno comune fuori nella corte interna. Dopo il solito fraintendimento Rial-Toman tra sorrisi e risate in lingue che non si comprendevano tra di loro prendemmo possesso della camera e ci riposammo per un paio d’ore dopo una notte passata in autobus.
La nostra missione della giornata fu quella di cercare un cambia valute e qualcosa da mangiare. Non fu un problema trovare dove cambiare i nostri dollari e improvvisamente ci ritrovammo milionari. Entrammo subito in un ristorantino vicino alla piazza Imam Khomeini e azzannammo il povero pollo allo spiedo con voracità. Con la pancia piena non ci restava che visitare la moschea dedicata a Khomeini e il Gran Bazar con la prima dentro il secondo. Lungo la strada vedemmo un parco e decidemmo di prenderci una pausa. Si vedeva il monte Damadavand innevato e le case che si arrampicavano e in mezzo al parco c’era un cafè. Decidemmo per un tè, biscotti e il qalyan, la pipa ad acqua che viene chiamata sisa o narghilè in diversi paesi.
Nel bar non c’erano turisti e nessuno si curava di noi. Disteso sul tappeto sopraelevato Franta fumava a grandi boccate mentre io assaggiavo delicati dolcetti con il ripieno di datteri e sorseggiavo tè.
“Dove sono finiti gli stranieri?” Mi chiesi ad alta voce.
“Saranno tutti scappati, oppure non vengono. Non ho sentito di molti viaggiatori che sono passati di qua ultimamente. Oppure hanno paura della strana coppia.” Franta chiarì il suo pensiero indicando le due immagini che ci guardavano sempre severe appese sulle pareti decorate con bandiere e foto antiche. “Qui sembra che nulla possa accadere senza che loro lo sappiano”.
Pagammo e uscimmo alla ricerca della moschea. Dovevamo pur fare qualcosa di turistico in quella giornata. Trovammo la moschea vagando per strade assordanti rischiando la pelle attraversando dove motociclette e auto sfrecciavano apparentemente senza regole. Continuammo per il Bazar, anche se in genere non ci interessa un gran ché. Ogni città ha un bazar, cioè negozi in un mercato antico e tutte le guide lo mettono come una delle cose da vedere per l’atmosfera caratteristica, però dopo un po’ diventano tutti uguali e inoltre non comprando nulla di solito evitavamo bazar come evitavamo musei. Un’altra ragione per evitare i bazaar era che non volevamo essere assaliti dai venditori che, facendo il loro mestiere, cercano in tutti i modi di attirarti nei loro negozi a volte insistendo in modo fastidioso. Il nostro era un venditore di tappeti che appena gli dissi che ero italiano disse qualche parola in italiano:
“ Buongiorno, poco prezzo, qualità, bello, buono, cento, duecento.” E continuando in inglese “Ho molti amici italiani che vengono sempre a comprare nel mio negozio. Gli italiani sono i migliori al mondo e l’Italia è il Paese più bello.”
Ci mostrò un’agenda piena di biglietti da visita italiani. Non chiesi, ma ero sicuro che se avessi girato un paio di pagine avrei trovato una pagina piena di biglietti da visita tedeschi, o francesi, e così via. Gli facemmo perdere un po’ di tempo visto che non possiamo portare nulla con noi nella casa viaggiante che è il nostro zaino.
“Non è un problema” aveva una soluzione a tutto “te li spediamo con DHL direttamente a casa”. Dovetti spiegargli che non avevo una casa e che la mia casa ora me la portavo sulle spalle.
Alla sera cercammo un internet café che non trovammo anche se Franta si fermava ogni 10 metri cercando una connessione wireless col suo ultra tecnologico telefono cellulare che riuscì a catturare per non più di 5 minuti. Hacking in Teheran!
Il secondo giorno visitammo il Palazzo Golestan e completammo la dose di visita turistica giornaliera. Pranzammo con riso e kebab di pollo e ci dirigemmo con la metropolitana verso il terminal sud degli autobus. Teheran non ci piaceva molto e non vedevamo l’ora di andare verso Esfahan e Persepolis. Non avevamo possibilità di interagire con le persone in una città troppo impegnata a rincorrersi e che non ci poteva parlare in inglese. Non ci avventurammo verso l’Università dove avremmo potuto trovare studenti più aperti a chiacchierare con noi e a raccontarci come vanno le cose nella capitale e sentire cosa ne pensano dell’influenza della religione nella vita politica e del Paese, oppure a proposito della questione nucleare e Israele, la posizione della donna. Purtroppo non avevamo tempo, ma ci saremmo rifatti con nelle città seguenti ascoltando qua e là opinioni personali di gente comune.
Prendemmo un autobus notturno cenando squisitamente nella stazione degli autobus. Mentre aspettavamo la nostra corsa venimmo avvicinati spesso da iraniani vogliosi di parlare con noi di sapere da dove venivamo, di darci il benvenuto nonostante la maggior parte dei nostri fan non parlavano in inglese e usavano frasi fatte probabilmente senza capire cosa volessero dire, perché non dici “I love you” (Ti amo) o “You are beautiful” (Sei bellissimo) a due viaggiatori maschi. Ovviamente erano tutti uomini o ragazzi che si sedevano accanto a noi e ci stringevano la mano oppure occasionalmente ci chiedevano di posare per una fotografia come delle star. Le donne si vedevano solo in lontananza con i loro veli neri, e a volte colorati o con delle sciarpe che avvolgono il capo. Tutto in regola pensando a come siamo abituati a vedere l’Iran in Europa. Regalai un accendino in cambio di una sigaretta iraniana ad un ragazzo che diventò subito l’invidia dei suoi amici.
Fummo aiutati a identificare il nostro autobus, uno Scania giallo con la scritta “Remember God” o “God Remember” sul vetro anteriore, da una marea di persone che ci faceva posto per sedere e partimmo con il solito ritardo tra la gente che andava avanti e indietro per la stazione urlando “Esfahan, Esfahan, Esfahan” sperando di riempire. Franta voleva aiutarli a gridare aggiungendo la sua voce, ma per problemi di pronuncia lo dissuasi a proporsi come urlatore ufficiale. Fu il nostro momento di popolarità che sarebbe continuato con alti e passi per tutto l’Iran e oltre.
- blog di Unprepared Andrea
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