18.02 L'Uomo Iena di Harar
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La stazione degli autobus ad Addis Abeba è pura e semplice anarchia. Si trova vicino al quartiere dove c’è il mercato, che si chiama… Merkato. La raggiunsi dal quartiere chiamato Piazza. Un po’ d’Italia è rimasta da queste parti.
Per una ragione a me incomprensibile gli autobus partono tutti alla stessa ora, o meglio durante lo stesso orario. Infatti al momento dell’acquisto del biglietto mi fu detto di presentarmi alle 6.30 del mattino perché i mezzi partono alla mattina. “Sì, ma a che ora parte il mio autobus?” chiesi sospettoso. “Alla mattina” mi fu risposto, cioè tra le 6.30 e le 11.
C’erano centinaia di persone quando arrivai in stazione con Franta. Forse un centinaio di autobus era già mezzo carico e aspettava solamente di essere riempito per poter partire. La gente caricava affannosamente il loro bagaglio sopra l’autobus, mentre improvvisati facchini legavano il tutto. C’era un umanità varia, colori e non colori diversi. Alcuni erano vestiti elegantemente, la maggior parte era in jeans e maglione coperti da una giacca per proteggersi dal freddo dei 2500 metri di Addis. Solo pochi si vestivano alla maniera tradizionale avvolti in lunghe bianche coperte multiuso.
Si sentivano grida e gente parlare animatamente, ma nonostante mi guardassi attorno non vedevo nessuno muovere le labbra. Erano tutti in uno stato catatonico di attesa. Forse erano ventriloqui. Non capivo da dove veniva tutto quel chiasso.
Sul biglietto avevo due numeri scritti a mano. Uno era il sedile e l’altro il numero di autobus. Girammo l’intera stazione ma non vedemmo il nostro mezzo di trasporto. Preoccupato chiesi a dei ragazzi. “Duemilatrecentrocinquantadue.” Mi dissero leggendo il biglietto. “Sì, il numero lo so leggere pure io, ma dov’è?” “Hmmm… da quella parte” e mi indicarono venti metri più avanti. La stessa scena si ripeté con altri ragazzi quando verificai le informazioni. In totale fui mandato avanti tre volte, a destra due e indietro quattro. Infine qualcuno si avvicinò e mi disse: “Io vado ad Harar. L’autobus parte da lì. Venite con me.” Come faceva a sapere dove andavamo? Semplice, eravamo gli unici ferengi, uomini bianchi, nella stazione e avevamo parlato con diverse persone. In pochi minuti tutti sapevano chi eravamo e dove stavamo andando. La cosa mi spaventò un po’, ma allo stesso modo quando si è sulla bocca di tutti non si è mai soli e non c’è un momento in cui qualcuno possa farci del male. Fregarci sì. L’essere fregato è intrinseco nella natura del viaggiatore.
L’altoparlante annunciò il cambio di autobus in amarico. Ovviamente noi rimanemmo al nostro posto osservando il flusso migratorio verso un altro veicolo, come degli anurak man, quelli che sotto la pioggia guardano il passaggio dei treni in Inghilterra. Un ragazzo si avvicinò con la sua compagna e molto gentilmente ci fece presente che se volevamo andare ad Harar dovevamo muovere il culo.
Salimmo e ci schiacciamo nei nostri sedili. C’era una fila da tre posti e una da due. L’autobus era un vecchissimo mezzo e le dimensioni dei posti a sedere erano probabilmente fatti su misura per Lucy, il fossile umano considerato da alcuni l’anello mancante dell’evoluzione.
Dopo due ore bucammo una ruota. Scendemmo a cambiarla e potei tranquillizzarmi alla vista dello stato degli altri pneumatici. Erano tutti lisci come gomme slicks da formula uno.
Il viaggio durò quindici ore. Un lungo calvario tra scenari mozzafiato montani che pian piano lasciavamo alle spalle. La strada era impeccabile. Ciononostante l’antico autobus preistorico saltellava come un ossesso su ogni granello di polvere. Incontrammo diversi greggi di pecore e capre, o asini da trasporto e anche numerosi cammelli che stazionavano sulla strada e se ne fregavano altamente del passaggio ad alta velocità dei veicoli. Sicuramente uno scontro con un cammello o un asino farebbe qualche danno in più di una semplice ammaccatura al paraurti e gli autisti procedevano cauti, ma non troppo visto il numero di veicoli ammassati lungo i lati della strada sotto forma di scatole di sardine. Arrivammo ad Harar alle nove di sera con lo stomaco al posto del cervello.
Ci dirigemmo da Tewdros, un ostello indicato dalla guida. Purtroppo era al completo, ma fortunatamente una voce ci chiamò dal buio del cortile. Era Teddy 2, un ragazzo di Harar che avevamo conosciuto ad Addis Abeba. Gentilmente ci aiutò a trovare posto in una locanda senza acqua corrente, con polverose coperte e senza serratura, ma costava poco.
Il giorno dopo girammo per la città dai muri bianchi che mi ricordava un paese arabo o islamico piuttosto che un centro etiope. Eravamo vicino a quel che resta della Somalia e gli influssi islamici si vedevano nell’architettura della città vecchia. Tra le mura vidi parecchi mendicanti e masticatori di chat con le bave verdi alla bocca. Molti erano anche gli storpi che sedevano per terra nei vicoli polverosi. Pecore e capre avevano cittadinanza ad Harar come nel resto dell’Etiopia.
Alla sera avevamo appuntamento per dar da mangiare alle iene. Sì dar da mangiare alle iene.
Da qualche anno ad Harar hanno ripreso la tradizione di nutrire le iene dandogli carne sanguinolenta in due punti della città. Alla domanda “Perché fate una cosa simile?” la riposta fu la seguente “Perché è tradizione?”. Non contento di questa seppur esaustiva risposta chiesi “Perché date da mangiare carne alle iene quando c’è gente che muore di fame per le strade di Harar?”. Mi guardarono come si guarda un rompicoglioni “Perché è tradizione.” Mi risposero nuovamente e aggiunsero un importante dettaglio “E’ un’antica tradizione.” Ah beh, se è antica ed è tradizione allora si deve fare. Ovviamente anche qui ci sono leggende che si perdono nel tempo e il significato di quel rito che si ripete ogni sera ha, forse, perso ogni significato antico originario e oramai nessuno sa più cos’è tradizione e cos’è marketing.
Le iene arrivarono dopo il tramonto e “l’uomo delle iene”, l’unico che può dar da mangiare a questi enormi cagnacci selvatici senza essere sbranato, si presentò con un secchio pieno di interiora di capra e una stecca di legno che usava come spiedino. Una decina di iene aspettavano, mentre noi eravamo seduti sotto un albero in silenzio a cinque metri dall’Uomo Iena. Cominciò a chiamarle ad una ad una. Le aveva assegnato dei nomi e sapeva riconoscerle. Forse i lupi diventarono cani in questo modo. Quelle iene, selvatiche, feroci, pericolose, diffidenti, affamate si comportavano come dei cagnolini silenziosi. Non emettevano nessuno rumore come un perfetto predatore, anche se preferiscono le carcasse alla caccia. Mica sono sceme, perché fare fatica? E ora avevano trovato chi dava da mangiar loro.
Mi avvicinai all’Uomo Iena, anche se non aveva il mantello maculato ma indossava una maglietta a righe. Mi sedetti accanto a lui mentre prendeva con lo spiedino di legno un pezzo di intestino sanguinolento e fetido. Lo mise a una ventina di centimetri dalla mia faccia. “Ma che cazzo fa…” Una iena silenziosa spalancò le sue fauci mostrando la sua ammirevole dentatura e fiera dei sui lunghi canini. Con una velocità sorprendente il pezzo di carne svanì dentro la sua bocca senza che il pezzo di legno venisse toccato come in un gioco di prestigio. Durò tutto solo qualche istante e fortunatamente non ebbi tempo di rendermi conto cosa stesse succedendo e conseguentemente farmela sotto. Ero attorniato da una decina di bestioni famelici dalle dimensioni di un alano, ma erano tutte mansuete come dei cagnolini.
Tornammo nel nostro albergo e, accesa la luce, assetato di sangue immortalai sul muro una decina di scarafaggi lasciando le carcasse appese come deterrente ai loro simili. Per essere più sicuro dormii con la luce accesa. Franta dormì immerso nella zanzariera dopo avere sterminato un paio di famiglie di scarafaggi in vacanza nella sua camera. Dei cani randagi abbaiarono per tutta la notte senza lasciarci dormire, perciò non ebbi nessun incubo.
Partimmo il giorno dopo per Addis in minibus. Ripercorremmo la via dell’andata stavolta su un comodo minibus privato. Superammo gli stessi asini che non si volevano spostare dal centro della strada e fummo attorniati da dei cammelli che ci scrutavano con lo stesso sguardo intelligente di studenti che seguono una lezione di Diritto Pubblico.
Franta cominciò a stare male. Un forte mal di testa lo aveva colpito e anch’io non ero al mio meglio. Il dolore si faceva più intenso e insopportabile per lui. La temperatura corporea salì a livello di ebollizione. Un pensiero terribile si presentò davanti a noi: Malaria. Appena arrivati ad Addis andammo all’ospedale per degli accertamenti. Dopo quarantacinque minuti una sorridente dottoressa ci disse in un inglese tutt’altro che impeccabile: “Malaria? No.” Mi venne il dubbio che ci avesse esonerato dall’ipotesi malaria solo perché non avrebbe saputo spiegarci cosa fare in inglese.
I sintomi svanirono il giorno dopo, ma un leggero malessere rimase a lungo. Tornammo a fare il test in un altro ospedale dopo qualche giorno “perché non si sa mai” secondo la mia filosofia e ci trovarono ancora negativi.
Il visto per il Sudan completò la bella giornata. Per la seconda volta andammo alla stazione degli autobus in direzione nord verso Lalibela ripetendo esattamente la stessa scena di qualche giorno prima in quella piazza anarchica. Era giunto il momento di salutare Addis, il suo caffè, la sua pizza, i suoi hamburger e la sua injera con injera, il piatto tipico etiope.
- blog di Unprepared Andrea
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