13.02 Livingstone

Livingstone non era un granché, ma era la prima città veramente africana che vedevo. Le attività commerciali si svolgevano lungo la via principale e un paio di edifici moderni con facciate di vetro si contrapponevano a costruzioni al massimo di due o tre piani un po’ vecchie e malandate dove c’erano una marea di negozi. L’idea che mi dava non era quella di sporco, ma di incuria o di cose lasciate a metà o non fatte bene fino in fondo. Alcuni muri erano scrostati, le insegne polverose o con delle lettere mancanti. Macchine dalla carrozzeria un po’ arrugginita o con toppe su vetri e sedili. Fili a penzoloni e in generale disordine. Ma non era un’immagine che infastidiva. La gente camminava lentamente o sembravano aspettare chissà cosa. Chiacchieravano agli angoli o nei negozi non capendo bene chi lavorasse lì e chi erano gli amici anche perché tutti si rivolgono ai clienti indistintamente. Anche nella zona indiana tutto si muoveva con apparente tranquillità nonostante la marea di gente. Al mercato le donne sedute su degli sgabelli davanti ai loro tavoli che vendevano bibite, dolcetti, frutta e biscotti, aspettavano i clienti chiacchierando tra di loro. Semplicemente era così, e mi faceva pensare “Ma sì, va bene pure così. Cosa c’è di male. Prendiamola con calma.” Forse mi ero già immedesimato nella realtà dove mi trovavo.

C’era un mercato poco lontano dal centro. Dall’ostello c’era una scorciatoia tra stradine in mezzo alle case e tra gli alberi. Nel labirinto dove mi trovavo non mi fu difficile perdermi come al solito. Un ragazzo che passeggiava cantando in una voce molte acuta mi aiutò a tornare sulla via giusta, così come due giovani ragazzi con una tuta da lavoro blu che andavano all’ufficio di collocazione e speravano di trovare almeno un lavoro giornaliero. Le case, tutte di un piano, erano di mattoni e solo alcune avevano i muri dipinti. C’erano dei minuscoli giardini con alti alberi e donne che stendevano i panni. Ogni tanto delle galline attraversavano la strada di terra battuta dove le auto non potevano passare.

Al mercato chiacchierai del più del meno con la gente. Un signora mi offrì il frutto del baobab, con i suoi semi aspri. In un bancarella di componenti elettrici discussi a lungo sulle diverse prese elettriche in giro per il mondo. La conversazione più lunga e dotta fu con un paio di uomini ad un bancone che vendeva di tutto. Stavano leggendo il giornale e in prima pagina riconobbi le facce di due persone nella grande foto a colori. Erano i due fratelli Bonetti che erano appena atterrati a Lusaka e avevano preso in mano le sorti della squadra nazionale di calcio. Un po’ di Italia in Zambia. Certo che potevano cercarsi almeno degli allenatori con un curriculum migliore. Vabbè, sperai che facessero bene, ora era in gioco la nostra reputazione.

Oltre il mercato c’era il quartiere delle scuole. Passai di lì durante la pausa e centinaia di scolari in divise colorate i rincorrevano e poi si fermavano ad osservarmi. Ma erano abituati a vedere dei “musungu”, uomini bianchi. D’altra parte Livingstone è una meta turistica. Tutte le scuole erano collegata ad un istituto religioso cristiano. Ce n’erano per tutti i tipi di cristianità esistenti. Evangelici, apostolici, cattolici, e qualsiasi altra chiesa. Grazie a loro almeno un po’ di educazione arrivava anche da queste parti.

La città era sicura. Ci si poteva muovere di notte senza grossi problemi se non perdersi. Tant’è che quando Franta al rientro si smarrì per le vie buie un gruppetto di ragazzi lo circondarono e… lo aiutarono. “Non preoccuparti. Qui non siamo in Sudafrica. Al tuo ostello devi andare di quella parte.”

All’ostello incontrai delle persone straordinarie. Una backpacker americana di sessant’anni dai capelli bianchi raccolti in una lunga coda. Era pensionata ed era stata poco tempo fa in Antartide e faceva ogni anno un viaggio di 3 mesi all’anno al massimo perché non poteva stare troppo lontano dai suoi cani. Era un persona seria e per questo qualsiasi cosa dicesse diventava ridicolo e simpatico, in particolare quando chiosava una frase con “shit”, merda. Forse potrò anch’io fare come lei e girare il mondo anche dopo la pensione? Per ora continuo e poi magari ripasso per vedere cos’è cambiato. Certo che è stata un’ispirazione. Non c’è età per viaggiare ed esplorare.

Poi incontrai un’altra persona speciale, Laura. Non mi sarei mai aspettato di vedere una giocatrice di pallavolo che, anziché andare in vacanza al mare dopo la stagione sportiva, se ne andasse in giro per il mondo a fare volontariato e a scoprire nuovi angoli della terra. Chiacchierammo a lungo seduti sui divani del Jollybackers discutendo di tutto e niente. Una sportiva che sapeva anche parlare e argomentare i propri pensieri in modo chiaro e coinvolgente. Tutti i miei stereotipi cadevano con quell’anarchica della pallavolo. Fu lei ad aprirmi gli occhi sulle donne africane. Laura aveva delle lunghissime trecce applicate sui suoi capelli corti che le donavano, ma non erano nulla a confronto con la varietà di capigliature sfoggiate dalle donne del luogo. “Quando torno in Italia, dopo aver schioccato amici e parenti mi tolgo le trecce. Invece qui in Africa non vedi che tutte le donne sono parruccate?” Aveva proprio ragione. Mi chiesi : “Ma quando passi la mano tra i capelli di una ragazza accarezzandola con la dolcezza propria dei momenti di intimità con luce soffusa, qual è la possibilità che ti rimanga in mano l’intera capigliatura della compagna? Che effetto fa tenere in mano i capelli della tua ragazza?. Forse mi sentirei in colpa.”

C’erano poi una coppia di norvegesi, lei giornalista che tra una discussione politica e un’altra ci disse che “è ovvio che in Africa ci si piglia la malaria. Spera solo di essere vicino ad un ospedale e che abbiano le medicine a disposizione. Io sono volata in Kenya quando mi sono ammalata in Tanzania.” Un studentessa inglese di scienze naturali lavorava ad un progetto che seguiva gli spostamenti di un gruppo di scimmie e un giorno senza accorgersi si trovò sopra un nido di formiche rosse. “Ti accorgi di loro quando senti un pizzicotto sul braccio. Poi guardi giù e ti ritrovi le gambe coperte da queste piccole figlie di puttana. Ho dovuto togliermi tutti i vestiti li davanti a tutti per liberarmene.” Era un bella ragazza. Invidiai i suoi colleghi. Una coppia austriaca ci diede un’idea per la continuazione del nostro viaggio. Lei aveva appena finito un progetto di volontariato con i ragazzi di strada in Uganda a Kampala e stavano viaggiando verso sud via terra. Volevano attraversare metà il lago Tanganica in traghetto dalla Tanzania allo Zambia, ma il traghetto era in riparazione. Sembrava una splendida idea. Non ci saremmo fatti scappare la possibilità di crearci dei problemi e così cambiammo il nostro tragitto.

Anziché prendere il comodo treno da Lusaka a Dar es Saalam, avremmo attraversato il lago e ci saremmo spostati da villaggio a villaggio allungato di qualche settimana il viaggio in Africa.