13.04 Mpulungu alla fine del lago Tanganica

Lusaka fu una tappa breve di transito.

Arrivammo in tarda serata e raggiungemmo l’ostello e campeggio suggerito dalla coppia di austriaci a Livingstone. Sapevamo da loro il prezzo del taxi, quindi fu facile negoziare. Al mattino cercammo e trovammo subito l’autobus per Mpulungu, alla fine del lago Tanganica. Andammo via dimenticandoci di pagare la notte di campeggio salutando tutti dopo aver utilizzato la cucina per il pranzo con la spesa fatta al supermercato Shop Rite simile a tanti supermercati europei.

Il viaggio notturno per Mpulungu fu lungo, ma comodo. Non fu necessario alcuna sveglia all’arrivo. I soliti gospel sparati a tutto volume mi fecero credere per un momento di aver preso l’autobus con destinazione paradiso. Poi guardai fuori dal finestrino e mi resi conto di essere in Africa.

Un ragazzo ci accompagnò al campeggio che avevamo trovato sulla bacheca di Lusaka. Lì avremmo avuto informazioni sul traghetto o su un cargo che attraversasse il lago verso nord. Eden, questo era il nome della padrona di casa ci disse che il traghetto per Kigoma, Tanzania, viaggiava ogni due settimane e noi eravamo capitati nella settimana sbagliata. Poco male c’era sempre l’opzione nave cargo, che era più attraente ai miei occhi. Saremmo dovuti andare il giorno dopo al porto e chiedere informazioni.

Passeggiamo lungo il lago fino al porto. Porto… era il posto dove alcune barche dei pescatori attraccavano. Il mercato del pesce era già attivo nonostante la maggior parte delle imbarcazioni dovessero ancora rientrare. Grandi quantità di pesciolini simile al pesce azzurro dell’alto Adriatico venivano fatti essiccare al sole e le donne cercavano di tenere a bada le mosche con degli stracci. Dei ragazzi si avvicinarono a noi incuriositi. Eravamo dei musungu in un paese dove gli stranieri solitamente non passano. Scambiavamo saluti e sorrisi. Con piccoli cenni del capo la gente ci dava il benvenuto. Al solito i bambini accorrevano agitando le loro manine gridando “Hello. How are you?”

In paese ritrovammo Gabriel, il ragazzo che ci aiutò a trovare il campeggio di Eden. Ci portò in giro per il paese e comprammo del pane. Si assicurò che qualsiasi cosa noi comprammo la pagassimo il giusto prezzo. Fu molto gentile e sia io che Franta aspettavamo il momento quando ci avrebbe chiesto qualcosa. Oramai eravamo abituati che la maggior parte delle persone quando vedono dei bianchi cercano in ogni modo di ricavare anche un minimo profitto. Ed invece no. Gabriel si comportò da amico. “Andrea, vuol dire che Gabriel è una brava persona?” Apparentemente sì. Lo incontrammo spesso durante il nostro soggiorno scambiando due chiacchiere e passeggiando insieme.

In Zambia la maggior parte delle persone che incontrammo non volevano approfittare di noi turisti musungu. Ci aiutarono senza nessun doppio fine se non la gioia di aiutare un ospite a casa propria. Essere trattati come delle persone normali con calore e rispetto ci riempi il cuore di gioia e ci fece amare sempre più questa gente. Il villaggio di Simonga ci aveva già dimostrato l’accoglienza e la simpatia della gente in Zambia e Mpulungu confermò questa sensazione.

Le popolazioni dello Zambia, contrariamente alla maggior parte dei Paesi africani non ha conosciuto periodi di guerre civili e odi tribali. Ovviamente eravamo pur sempre in Africa con le solite malattie croniche di corruzione e sottosviluppo, ma almeno l’odio e la tensione che avevo visto in Sudafrica e mascherata in Namibia, in Zambia non c’era e questo ci metteva a nostro agio aprendoci il cuore e facendoci scoprire l’Africa senza odiarla, anzi, cominciavo pian piano ad amarla cambiando il mio pensiero iniziale.

Al campeggio conobbi Valter, un ingegnere forestale italo-brasiliano che lavorava ad un progetto ONU di mappatura del territorio. C’erano pure due austriaci, un professore dell’Università di Graz e una ricercatrice, che facevano uno studio sull’evoluzione dei pesci endemici del lago Tanganica. Certo che non c’è limite alla fantasia. Infine c’era un danese, Peter, trapiantato in Zambia con i suoi genitori proprietari terrieri al sud che cercava un terreno per aprire una fattoria e un centro di pescicultura.
Valter era simpaticissimo e ci diede un paio di suggerimenti su come sopravvivere a Mpulungu senza cadere nella noia mortale. Mi mostrò alcune delle foto che aveva scattato durante i suoi viaggi in Amazzonia, in Africa e in giro per il mondo. Fantastiche. Un paio erano state pure pubblicate sul National Geographic. Ci incontrammo alla sera al ristorante all’angolo.
“Sì, ma che angolo?” gli chiesi.
“Quello con la casa rosa.” Spiegò nel suo accento brasiliano come fosse una cosa naturale quanto respirare. Beh, tanto ovvio non lo era nemmeno questa ulteriore spiegazione.

Forse per caso, ma riuscimmo a trovare il ristorante anche se al buio non si vedeva di certo il colore della palazzina. Mangiai un’ottima bistecca e per la prima volta capii che nei ristoranti in Zambia ci sono due conti separati, uno per il cibo e l’altro per le bevande. Le due cose sono separate seppur condividano lo stesso spazio. Pagai la mia bistecca al cuoco e la birra al bancone.

Mentre aspettavamo buone notizie dal porto non ci resta altro che cercare di passare il tempo a Mpulungu. Non c’era molto da fare e il caldo pomeridiano invitata ad una lunga siesta. Per fortuna le sere scorrevano allegramente in compagnia di Valter, Peter, il greco, proprietario di un’azienda di pescicoltura in Zambia (curioso posto per un marinaio greco) e Sir Thomas, proprietario del bar.

Una sera al bar l’atmosfera era più allegra delle altre. Dopo aver cenato con un delizioso pesce del lago avevo già bevuto due o tre birre, quando Sir Thomas offrì un giro. Eravamo rimasti solo io e Valter con lui dopo che il greco era andato via. Dopo un primo giro ce ne fu un secondo e un terzo. A mezzanotte eravamo le uniche persone in zona. Ritornai al campeggio in moto con Valter, ma arrivati lì sentivamo che la serata non poteva finire così.

“Ti porto io in discoteca e a bere qualcosa. Fa cagare, ma almeno vedi un po’ d’Africa.” E poi aggiunse “Si trova vicino al “bar delle puttane”, almeno è conosciuto così.”
Nella testa l’alcol stava trasportando lentamente il messaggio alle cellule per decifrarlo.
“Andiamo a vedere” fu la cosa più brillante che mi venne in mente.

La discoteca era mezza deserta, sporca, buia. Un posto dove normalmente non avrei mai messo piede. C’era un soppalco al quale si accedeva tramite una scaletta ed era protetto da un grata di ferro. Era l’angolo vip. Tra la disco e il “bar delle puttane” incontrammo il greco con un amico e una birra in mano. Ne prendemmo una pure noi e parlammo di cazzate come si fa’ al solito al bar in quelle situazioni. Il “bar delle puttane” lo conoscevo già. C’ero stato nel pomeriggio. A comperare il pane. Sì a comperare il pane. Di giorno panificio e ristorante, di sera bar e luogo d’appuntamenti. Dietro al bancone dove ordinai due birre c’erano gli sfilatini caldi. I doppi sensi si sprecavano in quella situazione. Tutte le ragazze attorno a me erano prostitute.

Sembra che la prostituzione in quella parte d’Africa sia una cosa normale e parte della vita di tutti i giorni, o notti. E’ un lavoro come tanti altri. Ovviamente non si va in giro a dire “io faccio la prostituta” o “io alla sera vado ai bordelli”, ma c’è un silenzioso rispetto e tolleranza per queste situazioni. Io non sono contrario alla prostituzione, sono contrario allo sfruttamento della prostituzione con tutti i crimini che ci stanno dietro e i problemi di salute, sociali e psicologici. In Africa sembrava fosse tutto normale. Speravo che i soldi dei clienti rimanessero nelle tasche di quelle donne, forse madri single e disoccupate che in qualche modo dovevano pure sopravvivere se nessuno si prendeva cura dei loro figli. Non ero a conoscenza di quali fossero i drammi dietro a quella scelta di vita, ma sicuramente era una strada che la donna faceva perché costretta dagli eventi della propria esistenza. E questo, non me la sentivo di giudicare (e poi chi sarei io per giudicare?).

La maggior parte dei tavoli era occupata da gente che voleva solamente bersi una birra in altri invece c’erano delle coppiette che si formavano velocemente con naturalezza e che poi sparivano dietro al locale. Non riuscivo a distinguere le prostitute dalle ragazze che non lo erano. Tutte vestivano semplicemente, senza volgarità, con jeans e maglietta aderente che evidenziava le curve sinuose o abbondanti del corpo.

“Nei bar dei paesini sono solitamente tutte prostitute. Almeno qui lo sono.” Mi illuminò il greco che viveva lì da decine di anni e che evidentemente la sapeva lunga.

Trovammo la via del campeggio con difficoltà e non ebbi problemi ad addormentarmi senza pensieri se non quello del mal di testa del giorno dopo una sbronza.