13.03 Simonga Village
Alla reception, sotto una parrucca, c’era una bellissima ragazza. Un fascino tutto africano ipnotizzante. Fu lei e le raccomandazioni di Laura e Manuela a farci andare a visitare il villaggio di Simonga poco lontano da Livingstone.
Decidemmo di pernottare lì in una delle tre capanne di fango e paglia costruite per ospitare i turisti. Ad accoglierci appena scesi dal taxi c’era Bernard che si presentò come project manager. Non riuscii a trattenere una risata sincera che dovetti coprire con scusa banali per non offenderlo. Sentire parlare di project manager a Simonga dopo anni di progetti in Hewitt suonò nella mia mente alquanto strano. Ma così era. Arrivammo alla casa della capo villaggio e c’era appeso al muro un poster con tanto di organigramma, divisione dei compiti e linee di riporto. Rimasi abbagliato da tanta serietà. Il progetto per il turismo era sponsorizzato da un’organizzazione non governativa olandese che tra l’altro supervisionava varie iniziative che riguardavano le forniture d’acqua.
Bernard fece la sua parte utilizzando la parola “tradizionale” un centinaio di volte in poco tempo. Tutto era tradizionale secondo lui, dai disegni sui muri delle capanne, alla “shima”, polenta, fatta con metodo tradizionale, fino agli sgabelli dove sedavamo e la bagno. Non gli chiesi se dovevo cagare in modo tradizionale, ma fui tentato. Nonostante il suo cellulare tradizionale squillasse più volte interrompendo la presentazione la chiacchierata fu piacevole e istruttiva.
A Simonga la capo villaggio era un’autorità rispettata da tutti. Era stata scelta e nominata quand’era ragazza tra i membri di una famiglia da i rappresentanti di tutte i gruppi familiari del villaggio. Era sempre la stessa famiglia a fornire la capo villaggio, che doveva essere donna. Da lei passavano tutte le controversie, distribuzioni di terre, celebrazioni e permessi di fare qualsiasi cosa. Se c’erano dei problemi di ordine pubblico, prima doveva essere consultata lei e poi far intervenire la polizia se lei ne reputava necessario l’intervento. Da un figura così importante mi aspettavo un personaggio dinamico e carismatico ed invece fui introdotto ad una signora di circa cinquant’anni stanca che mi sorrise di cuore, ma che non parlò affatto e che se ne stava in disparte seduta sulla sua sedia. Tutti gli portavano enorme rispetto e si preoccupavano di lei, ma non mi sembrava elargisse saggi consigli. In ogni caso era tradizione, mettendola con le parole di Bernard.
Kevin, nipote della capo villaggio, ci fece da guida tra le case o capanne costruite con fango e paglia utilizzando una struttura portante di legno. I tetti erano di canne e venivano cambiati ogni due o tre anni con le canne che crescevano in abbondanza poco lontano. Non c’erano tubature dell’acqua e solo alcune case avevano l’elettricità sufficiente per una lampadina. Le donne erano al lavoro all’esterno delle case lavando i panni, accudendo i bambini, preparando il cibo o la verdura da vendere.
Venimmo subito assaliti da orde di bambini che non chiedevano nulla se non giocare con loro, ridere, e fare foto. Le risate e i sorrisi di quelle piccole pesti furono contagiose. Di solito sto alla larga dai bambini, ma quelli mi coinvolsero subito senza darmi tempo di oppormi. Erano troppo graziosi e simpatici. Andando verso la scuola dove incontrammo il preside che ci invitò a ritornare il giorno dopo in occasione degli esami, fummo seguiti dai bambini e Franta tento di spiegarli i meccanismi del mercato finanziario cosa che sembrò catturare la loro attenzione almeno per dieci minuti.
Riuscimmo a seminare i bambini e a raggiungere il pozzo d’acqua da dove gli abitanti del villaggio si approvvigionavano quotidianamente. Principalmente erano le donne a trasportare pesanti taniche d’acqua sulla testa, mentre gli uomini lavoravano nei campi. Scoprii che per proteggere i campi coltivati dal passaggio degli elefanti e sufficiente spargere lungo il perimetro del peperoncino piccante. Non ero sicuro di quanto spesso avrei utilizzato questa informazione.
Passammo oltre la chiesa in costruzione e ci dirigemmo al bar dove i ragazzi nullafacenti bevano birra o coca cola e giocavano a biliardo. Ci mescolammo a loro per un po’ fino a che Bernard venne a chiamarci per la cena, ovviamente tradizionale, a base di shima, pollo e verdure. Mangiammo in veranda insieme a due ragazzi olandesi che lavoravano per ONG in patria e facevo del volontariato per un mese seguendo i progetti relativi all’approvvigionamento dell’acqua e al turismo. Bevemmo un paio di birre, tradizionali, e andammo a dormire nell’accogliente capanna.
La mattina seguente, dopo aver fatto colazione, ci recammo a scuola dove il preside ci attendeva. Senza preavviso fummo spediti in aula dove gli studenti attendevano di iniziare l’esame di fine anno di educazione civica. Io fui mandato ad occuparmi dei quindicenni del livello scolastico 9, mentre Franta si sarebbe dovuto destreggiare tra quelli di un anno più giovani. Il professore che doveva gestire l’esame mi diede un plico di fogli con le domande e mi disse: “Vai, distribuisci e dagli due ore e mezza per completare l’esame. Non farli copiare. Sono dei bravi ragazzi. In bocca al lupo.” E sparì. Incredibilmente i ragazzi erano diligenti e non vidi nessun tentativo di copiare, ne’ di collaborare e si che un po’ d’esperienza ce l’avevo a riguardo. Erano seri e non ebbi problemi.
Vestivano tutti allo stesso modo: camicia bianca, maglioncino verde e pantaloni, i ragazzi, o gonne, le ragazze, verdi. Ebbi tempo di osservarli. Erano tutti concentrati sul test. Le loro divise erano pulitissime, ma i colletti erano spesso consunti e a volte qualche buco era rattoppato non tanto bene.
Mi sentivo un po’ a disagio. Era un giorno importante per loro, e davanti a sé si trovavano non un professore, ma uno straniero, vestito da viaggiatore con i pantaloni un po’ sporchi e una macchina fotografica che palesemente non aveva idea di cosa fare.
Kevin venne a togliermi dall’imbarazzo perché dovevamo andare con lui al fiume. Ci volle un po’ per raggiungere lo Zambesi. Fummo accompagnati da due allegre ragazze che cantavano e non smettevano mai di parlare. Attraversammo una fattoria di proprietà di un bianco e lungo il sentiero l’erba secca non veniva tagliata ma bruciata. Sull’altro lato dello Zambesi c’era lo Zimbabwe e qualche chilometri più a valle c’erano le Cascate Vittoria. Lì tutto era tranquillo e un paio di coccodrilli prendevano il sole su delle rocce che affioravano dall’acqua.
Fu un’esperienza fantastica. Passare due giorni a Simonga e sfiorare con i sensi la vita di un villaggio mi fece conoscere finalmente la parte d’Africa che cercavo. Vidi un’Africa vera, semplice dove la gente non gode di tutte le comodità che riteniamo indispensabili e che, forse, in fin dei conti indispensabili per una vita normale non lo sono. Le sfide che quella gente aveva quotidianamente erano tante: acqua, sanità, non c’era ne’ medico, ne’ ospedale, elettricità, cibo, e la difficoltà di crescere una famiglia dovendo lavorare duro, ma nonostante la vita proseguiva serena a Simonga, un villaggio tradizionale, parole di Bernard.
- blog di Unprepared Andrea
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