25.02 Avrei potuto batterlo
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In bicicletta oltrepassai il centro cittadino di Siem Reap e prosegui seguendo la strada maestra che costeggiava il fiume verso Phnom Phen. Al primo ponte svoltai a sinistra senza sapere perché. La strada continuava in terra battuta di color rosso Roland Garros piena di buche da sembrare che gli americani non avessero ancora lasciato in pace la Cambogia.
Le case a destra erano nuove e in mattone e ogni tanto spuntava qualche tempio o monastero che ignoravo completamente dopo l’abbuffata di templi ad Angkor. Sulla sinistra, a ridosso del ruscello maleodorante, le costruzioni erano in legno. Erano delle palafitte rialzate dal letto del fiume fino al livello stradale. Dietro c’erano le stanze da letto e panni stesi ad asciugare, davanti invece c’erano degli improvvisati negozi di ogni genere. La gente per lo più dormiva con la testa appoggiata al tavolino, oppure sdraiata su una branda, o assumeva la tipica posizione di queste parti: mani congiunte sul telefonino a digitare ad una velocità ultrasonica.
Gli affari sembravano latitare da queste parti e la vita scorreva lenta e stanca fiaccata dalla calura. Solo uno straniero avanzava sulla sua mountain bike e la gente lo osservava come fosse un fenicottero che volasse su piazza Duomo a Milano.
Tra una casa in legno e l’altra comparivano delle officine degli artigiani che lavoravano con quel poco che avevano a disposizione. Poi come un chicco di grano in un risotto vidi dentro in una di quelle costruzioni in legno fatiscente un equipaggiatissmo internet cafè dove dei ragazzini si affrontavano inebetiti in giochi multiplayer online. Ecco dove si aggregava il futuro della Cambogia. Chissà che non riescano pure a trovare la soluzione per far giungere acqua pulita nei villaggi oltre a come distruggere le armate del male.
Vidi un cartello indicava una “Crocodile farm”, un allevamento di coccodrilli. Sotto la dicitura c’erano delle immagini. Erano foto di coccodrilli sotto forma di scarpe, borsette, taccuini, cinture e tutto quello che un coccodrillo non vorrebbe mai essere. Tra le case di legno di quel sobborgo mi colpì l’insegna di un ristorante. Era un ristorante turco che si vantava dei propri kebab. Che bello poter mangiare un kebab in un posto sperduto in Cambogia… altro che Mcdonald.
La strada rossa raggiunse la via principale e decisi di tornare indietro. Un bambino mi vide e in sella ad una bicicletta che sarebbe potuta andare bene per Karim Abdul Jabar mi affiancò spavaldo e sorridente. Ricambiai il sorriso e tirai dritto.
Il Bugno di Cambogia non mollò e mi restò incollato sempre col suo sorriso beffardo. “Vuoi una gara? E allora ti accontento.” Accelerai. Lui dietro. Spingeva i pedali con le punte degli alluci mentre stava seduto, ma ora lo sforzo gli imponeva di staccarsi dallo sellino e di aggiungere tutto il suo peso sul pedale per dare maggior forza di spinta. Non rideva più ed era intento a mantenere l’equilibrio. Incontrammo una buca che sembrava creata da una bomba sganciata da un B-52 e il piccolo per poco non cadde a terra. Passai sopra ad una rana spalmata sul terreno e incollata come fosse una figurina panini ad un album. Fu un segno. Non sapevo bene quale, ma una rana è sempre simbolica in oriente.
Il bambino continuava ad affannarsi per starmi dietro. Allora decisi di rallentare e di lasciarlo vincere. Dopo avermi staccato feci segno che non ce la facevo più e che il mio cuore stava per scoppiare. A scoppiare furono le risate sue e dei suoi amici.
Ridi pure piccolo mio, pensai tra me e me. Divertiti finché puoi. Prendimi pure in giro se ti fa gioire, ma non mi rovinerai il sonno. No. Perché so che se avessi voluto, io, avrei potuto batterti.
- blog di Unprepared Andrea
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Commenti
certo, certo... :D
certo, certo... :D