Un caorlotto alla fine dell'India
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Kanniyakumari è la punta estrema dell’India, a destra c’è il Golfo del Bengala, davanti si apre l’Oceano Indiano, e a sinistra finisce il Mar Arabico. Quando si arriva qui ci sono tre cose che si possono fare. Ci si può tuffare in mare e nuotare fino all’Antartide come un pazzo che insegue un sogno irrealizzabile che ha perso il contatto con la realtà. Oppure ci si ferma perché si ha trovato quel che si cercava, come è successo a mio zio Giusto. La terza possibilità è quella di tornare indietro. Si torna sui propri passi, a casa, perché ci si sente sconfitti o delusi da quello che si è trovato quando le aspettative di un sogno non coincidono con la realtà, oppure si torna indietro alla ricerca di una nuova strada più in là, da un’altra parte per poter continuare il proprio viaggio. Questo è quello che sto facendo io.
Entrai in contatto con Giusto quando avevo già iniziato il mio viaggio. Mi sembra fossi in Iran quando ci scambiammo le prime e-mail. Ero elettrizzato dal percorrere la strada attraverso l’Iran e il Pakistan via terra e sapevo che lui avrebbe apprezzato avendola fatta tante volte anni fa. Mi diede il suggerimento di non fermarmi a Quetta, cosa che non volevo fare in ogni caso e che fu provvidenziale. Devo ammettere che il coraggio di attraversare la zona di confine tra Iran e Pakistan mi venne anche pensando a lui. Se lui lo fece, allora potevo farlo anch’io, perché no?
Lo chiamai quand’ero disteso sulla spiaggia a Goa per avvisarlo che oramai ero vicino. Impiegai più del dovuto ad attraversare gli ultimi chilometri e finalmente presi il treno a Cochin per Kanniyakumari. Dopo dieci ore di treno arrivai a destinazione con una notte insonne alle spalle a combattere contro le accanite zanzare indiane della laguna di Kerala.
In realtà non avevo mai avuto frequenti contatti con lui. Anzi, penso di averlo incontrato e di averci parlato solamente poche volte. Hey, se vado nel sud dell’India perché non passare a trovarlo? Non ero sicuro di come mi avrebbe accolto. Nel senso che nella mia testa pensavo ad un abbraccio caloroso, però potevo anche essere un disturbo. In fin dei conti andavo a intromettermi a casa sua seppur per poco tempo.
Arrivato presi un autorickshaw per raggiungere casa. Al telefono Giusto diede le istruzioni all’autista anche se non c’era bisogno, perché in paese tutti conoscono “the italian guy”, l’italiano, oppure “the white man”, l’uomo bianco.
Appena sceso dall’autorickshaw venne ad aprirmi sorridente dandomi un caloroso benvenuto anche se non ci abbracciammo. Pensai che in India non si usa fare così. Ci sedemmo subito a tavola e la moglie ci servì del pesce abbondando di salse leggermente piccanti e riso. Il tutto messo sopra una foglia di banana che serviva da piatto e che veniva gettato insieme agli avanzi. Tutto riciclabile dalla terra e senza saponi e altri prodotti chimici. Ovviamente dissi di no alle posate e mangiammo con le mani, anzi, con la mano destra. Ero si a casa di un caorlotto, ma eravamo in India!
Parlammo del più e del meno. Soprattutto portai notizie del mio viaggio e dei parenti. Come stava il papà, le zie, la famiglia in generale con qualche dettaglio sfumato perché era da otto anni che vivevo in giro per l’Europa. Il pranzo fu piacevole e mi sentii benvenuto. Bevemmo un tè, il solito chaj tè speziato con latte, e la caldana del pomeriggio ci invitò ad andare a fare un pisolino dopo pranzo. Alle sei saremmo andati in centro dove zio Giusto aveva il suo negozio di antiquariato.
Giusto lasciò Caorle e scelse definitivamente l’India circa trentacinque anni fa. Nell’ottantasei si sposò e ora ha due figli di ventitré e ventidue anni. E’ felice in India, dal resto non ci sarebbe rimasto così a lungo mettendo su famiglia. Ha un negozio di antiquariato e una bella casa con alcuni alberi da frutto nel retro. Nella casa tiene alcuni degli oggetti che poi vende o che gli piacciono troppo per potersene separare. Ha dovuto lavorare duro per avere ciò che ha ora, ma soprattutto per farsi accettare appieno dalla comunità. In fin dei conti lui è pur sempre l’uomo bianco.
Gli chiesi quanto fosse facile poter fare affari a Kanniyakumari. L’idea che in India i costi siano bassi, mi ha sempre fatto pensare che basta venire qui con qualche migliaio di euro e poter aprire un’attività. Non funziona proprio così. Innanzitutto bisogna superare la burocrazia, e solitamente ci si affida a chi fa queste cose per professione, come il mio amico di Bombay che fa consulenza per aziende britanniche con interessi in India. Poi c’è da seguire il lavoro con dedizione e costanza. Come da tutte le parti, pensai io, ma in quel piccolo villaggio meta di pellegrinaggio per gli indiani non è facile fare affari. Non ci sono le centinaia di turisti che ogni settimana vanno e vengono ghiotti di portarsi a casa un pezzo d’India, a volte un semplice pezzo di legno pagato carissimo. Poteva benissimo spostarsi altrove, ma la famiglia e la sua vita erano lì, quindi decise che uno sforzo ulteriore valeva la pena. Volontà interiore per continuare nel proprio intento, questo era quello che ci voleva, e lui ne aveva da vendere.
Purtroppo la mia ignoranza in fatto di arte non ci permetteva una discussione elevata sull’antiquariato, ma discutemmo sul fatto che in molti negozi spacciano per antico quello che è fatto ieri e chiedono ai turisti prezzi assurdi, l’ho visto con i miei occhi. La sua filosofia era quella di far pagare il giusto prezzo, con una contrattazione, certo, ma senza sparare quelle cifre assurde che mi fanno imbestialire ogni volta che entro in contatto con un venditore indiano. Per lui l’arte e il bello erano un qualcosa di divino che prescinde dai gusti. Il bello è, semplicemente.
La cosa che ammiro nelle persone è la determinazione e la forza interiore nel voler raggiungere quello che vogliono, quello che le far star bene, senza mai rinunciare ai valori etici e morali che portano al rispetto delle persone, al farsi accettare e al non volere strafare, a fare star bene sé stessi e la propria famiglia. Penso a mio padre e a molti altri. Giusto è uno di questi.
Salii sulla motocicletta con lui senza il casco e andammo al negozio in città attraversando cambi di palme di cocco, banane, saline saltando sugli improvvisi buchi nella strada.
L’antiquariato è piccolino e quando arriviamo l’assistente se ne va non avendo venduto nulla per tutta la giornata. La notte prima, mentre aspettavo il treno a Cochin bevendo un caffè al binario uno, incontrai per caso una ragazza torinese.
“Vado a Kanniyakumari.” Le dissi.
“Io ci sono stata un paio di giorni fa. Non è un granché, mi aspettavo altro. E’ un posto particolare perché il sole tramonta e sorge dal mare, ma quando mi sono svegliata alle cinque per vederlo, beh, c’era foschia…”
“Ci vado a trovare mio zio.” Cercai di giustificarmi come se andare a Kanniykumari fosse uno sbaglio per principio.
“Ah, è quell’uomo elegante e professionale che ha un negozio di antichità in centro? E la cui figlia s’è sposata da poco?” disse sorpresa.
“ Beh, tra le centinaia di italiani che vivono lì penso tu sia riuscita a incontrarlo.” Replicai ancora più sorpreso della coincidenza che l’aveva portata a conoscere l’unico italiano residente a Kanniyakumari e forse in tutto il Tamil Nadu. Ridemmo del caso e pensai che durante il mio viaggio il destino, o qualcuno lassù mi stava dando continuamente una mano.
Non posso spiegare meglio e in maniera più semplice l’impressione di Giusto dentro al suo negozio. Elegante e professionale con una camicia a maniche lunghe e pantaloni scuri. Lo stile italiano non l’aveva abbandonato.
Andai in giro per conto mio a vedere il tramonto dal promontorio dove i tre mari si incontrano e chiacchierai con i quattro indiani con i quali avevo passato le ultime ore del tragitto in treno fino a lì. C’erano migliaia di turisti indiani vestiti all’occidentale, donne in colorati sari e uomini locali riconoscibili da una specie di lenzuolo fasciato alla vita che copre le gambe e che viene raccolto ai fianchi piegandolo in due sembrando una gonna da uomo lunga fino alle ginocchia. Entrai nel tempio e mi fecero togliere scarpe e la maglietta rimanendo così a torso nudo come le centinaia di pellegrini. Mangiai un “dosa” velocemente e ritornai al negozio, dove mio zio stava chiacchierando con quattro italiani. Le due donne andavano spesso a trovarlo. Facevano del volontariato in un paese vicino e andavo lì ogni anno. Altri italiani in giro per il mondo.
Chiuso il negozio alle dieci andammo a casa a mangiare. Quella sera chiacchierammo fino all’una di notte quando sua moglie ci fece notare l’ora tarda. C’era un black out e i ventilatori non funzionavano. Decidemmo perciò che la cosa migliore era dormire per terra sul pavimento fresco anziché andare al primo piano sul letto caldo. Oramai mi sentivo anch’io un po’ più indiano.
Il giorno dopo andai sulla montagna delle medicine, chiamata così perché Hanuman, la divinità con le sembianze di scimmia, fece cadere un po’ di terra dalle sue mani mentre la portava per curare le ferite di Rama. Su quella montagna crescono ora molte piante mediche. Sulla cima della montagna, mentre mi godevo l’India e i tre mari visti dall’alto, incontrai un sacerdote di un ashram ai piedi del monte che mi ospitò per un’ora mentre lui faceva lezione a dei pellegrini.
A pranzo trovai una sorpresa. Dopo tre mesi mangiai spaghetti che mi sembrarono deliziosi in quel luogo lontano così lontano da casa. Buonissima. Ci sono alcune cose alle quali un italiano non può rinunciare a lungo. Dopo il solito tè andai a dormire e in serata ritornammo in città. Cenammo indiano in un ristorantino rajasthano e alla sera guardammo il filmato del matrimonio della figlia.
Era simpatico vedere l’uomo bianco seguire con disinvoltura il lungo rituale indù del matrimonio e sentirsi a suo agio tra la millenaria tradizione tamil fatta di offerte di frutta e colori sgargianti sotto un baldacchino adornato di fiori seguendo le indicazione del sacerdote celebrante. Oltre seicento invitati che portavano omaggi e simboli di prosperità alla nuova coppia. Ho visto lo sposo venire fasciato alla testa con una sciarpa colorata da tutti gli uomini presenti e la sposa con elaborati henna e vestiti splendenti che rendevano ancora più bello il suo volto bianco italiano. Purtroppo, almeno dal mio punto di vista, i figli non parlano italiano e tantomeno il dialetto.
“Come è stato farsi accettare nella comunità?” Chiesi incuriosito.
Non era stato facile. Quando era venuto qui aveva stretto amicizia con molte persone, ma era sempre l’uomo bianco, fino a che non ha conosciuto, capito e rispettato i rituali e le tradizioni, altrimenti si vive in India come un turista in un villaggio. Praticamente fino a che non si era immerso nella loro cultura che ammirava, soprattutto nei valori che attribuiscono alla famiglia, come supportarsi insieme fino alla fine, crescere e amare i figli insieme e che viveva profondamente. Disse più volte che avrebbe preso una decisione importante come spostarsi di città solo se poteva essere d’aiuto al futuro dei figli e alla loro sicurezza e se fosse una decisione di comune accordo con la moglie.
Non è facile lasciare casa in un paese piccolo come Caorle nel veneto orientale e andare a vivere in un’altra provincia, figurarsi a migliaia a migliaia di chilometri di distanza in un altro continente e in una cultura totalmente differente da quella occidentale. E’ stata una scelta coraggiosa che altri caorlotti hanno fatto, a volte per necessità. Non direi sia un esempio da seguire, ma un’idea da sperimentare per capirsi e vivere la vita appieno.
Anch’io non vivo più a Caorle da anni. Ho trovato la mia casa altrove, lontano da dove sono nato. Sono felice della mia scelta, ma a volte penso alla mia terra con nostalgia. Penso succeda spesso che una volta andato via, ci si accorga di quanto di bello si è lasciato, anche se questo dura solo per pochi intensi melanconici minuti. “El campanil xe sempre el campanil, e a madonina a te resta sempre in cuor”, il campanile del millenario duomo è sempre il campanile che ti ha tenuto a battesimo e la chiesa della Madonna dell’Angelo rimane sempre nel cuore, e come potrebbe essere altrimenti?
Credente o no sono i simboli della mia terra. Sono la mia tradizione e le mie radici. Ho fatto le mie esperienze di vita e sono cresciuto mentre loro mi guardavano dall’altro. Il Mare Adriatico che ha dato cibo e risorse a generazioni di caorlotti; la spiaggia sabbiosa dove ho vinto una competizione di costruzioni castelli di sabbia da piccolo; la “diga” con le rocce a spezzare l’impeto del Mare agitato dallo scirocco e dove ci si nascondeva da ragazzi assaporando il proibito; il porto peschereccio con le imbarcazioni che scaricano pesce fresco, chili di “sardee”, “sepe”, “pasarini” e “bisati”; la calma laguna e il rio terrà come un bazar mediorientale d’estate; tutto è parte di me, volente o nolente ha contribuito a plasmare la persona che sono ora e che mai rinnegherò.
Quando ritorno a casa (dov’è la mia casa ora?) posso percorrere la strada da Portogruaro, San Donà, San Stino o Mestre ad occhi chiusi. L’ho fatta mille volte. Qui un semaforo, un distributore, una rotonda, uscire alla seconda, rettilineo, curva lunga verso destra o verso sinistra, stop, rettilineo, una casa abbandonata, e poi un’altra. Un ponte ed eccolo lì, il campanile che si vede da lontano. Casa che ti accoglie. Mi piacciono questi momenti. Forse bisogna andare via per apprezzare le cose che si hanno e che ora mancano.
Il giorno della mia partenza era il quindici del mese, e quel giorno significava il momento in cui Giusto distribuisce mensilmente dei soldi donati da alcuni caorlotti e da altri benefattori ad alcune famiglie bisognose. Mi fece vedere il registro in cui tiene diligentemente i conti. Riesce a dare un sollievo a circa una ventina di famiglie ora. In passato era arrivato ad aiutarne fino a trentaquattro. Per lo più sono vecchi che non riescono più a lavorare duro come facevano in passato e famiglie sfortunate, dove ad esempio il padre è deceduto lasciando la famiglia senza la principale fonte di sostentamento. Quello che distribuisce non è una grande cifra, ma almeno è un piccolo aiuto che riesce a donare un po’ di respiro a chi ne ha bisogno. Mentre ero lì arrivò un vecchietto. Ora non riusciva più a tirare avanti e indietro il carro che solitamente è trainato da animali da soma e che lui non aveva. Il vecchietto si sedette sul portico della casa. Aspettò. Giusto uscì e gli diede i soldi. L’uomo li accettò con dignità. Salutò. Ringraziò e se ne andò. Sarebbe stato così tutto la mattinata. Spero ci siano più persone che possano contribuire per aiutare questi poveretti. Io mi sono già aggiunto alla lista.
Mi accompagnò sempre con la solita motocicletta fino alla piazzetta alla fine della strada. Mi aggrappai saldamente con la mia casa ambulante di 16 chili sulle spalle e presi subito un autorickshaw.
Era un altro addio lungo la mia strada, ma gli addii non mi dispiacciono così tanto, perché presuppongono un incontro piacevole che li abbia preceduti. Meglio un addio in più che un incontro mancato.
- blog di Unprepared Andrea
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Commenti
ciao, non so se ti è arrivato
ciao,
non so se ti è arrivato il messaggio ma c'è qualcun'altro che il suo viaggio lo ha appena iniziato: Adriano; è nato all'1.45 sabato :)
Auguri Giuly!!! Solo una
Auguri Giuly!!!
Solo una precisazione: spero che il piccolo non si chiami così in onore di Adriano dell'Inter ...
Capisco molto molti in
Capisco molto molti in profondità quello che scrivi, e per essere cresciuto in riva all'adriatico (con i cocal...) e per essere stato lì sotto il campanile di Caorle, e per essere un ramingo in qualche modo pure io, o meglio un apolide ...
Mi ha toccato molto caro amico mio, capisco quello che ti passa per la testa ogni tanto.
Ti garantisco che il messaggio passa molto bene... continua così...
Ciao