17.01 Monte Kenya

Il tentativo di scalata al Monte Kenya cominciò con un furto.
Da Nairobi prendemmo un minibus che impiegò quattro ore anziché due per arrivare a Nanyuku, il paese da dove avremmo organizzato l’escursione. Perciò anziché arrivare con la luce del sole, giungemmo in paese col buio. Eravamo rimasti in quattro dentro al veicolo più l’autista. Gli altri erano scesi presso ai villaggi lungo la strada. L’autista ci stava portando porta a porta e imboccò una stradina buia. Sbagliò strada e stava facendo retromarcia quando un ragazzo si avvicinò al minibus.
Franta era seduto vicino al finestrino, chiuso, con in mano il suo cellulare e stava leggendo informazioni sull’escursione che avremmo dovuto fare. Spesso la gente si avvicina ai veicoli per scambiare due parole, per dare informazioni, per curiosità o per fare affari quando vedono due mzungu, visi pallidi. Franta perciò non badò molto al ragazzo. Errore.
Velocemente e cogliendolo alla sprovvista il ragazzo aprì il finestrino scorrevole, agguantò il cellulare e lo strappò di forza all’incredulo Franta e scappò. Franta scese subito e cominciò a inseguirlo per la via buia. La donna che era con noi strillò. Io ero bloccato dai nostri zaini e cercai di uscire per aiutare il mio compagno di viaggio. Poi ci ripensai “e se ce ne fossero altri? Forse era meglio non lasciare incustoditi gli zaini” Franta dopo qualche metro al buio si rese conto dell’inutilità dell’inseguimento e degli eventuali pericoli dietro l’angolo.
Scossi ci facemmo portare all’albergo dove dormimmo un sonno agitato, almeno il mio.
Il giorno dopo andammo all’agenzia per pianificare l’escursione sul Monte Kenya. Lì raccontammo il fatto al proprietario. “Aspettate. Descrivetemi il modello. Ora vado dai street boys e vediamo se salta fuori qualcosa.” Durante il nostro soggiorno ci fu detto che il ragazzo era stato trovato e picchiato. Ora il cellulare ce l’aveva qualcun altro. Non ci fu verso di ricomprarlo.
Non credetti alla versione del nostro agente e avevo dei dubbi persino sull’autista del minibus. Non rivedemmo più il cellulare e il senso di sconforto e di dubbio rimase a lungo.
Ma eravamo lì per altro. Avevamo 4985 metri da superare e non volevamo lasciarci rovinare l’avventura.
L’industria turistica era organizzata. In un giorno avevamo la guida e un portatore che ci avrebbe aiutato col cibo e con il fornello da portare su. Il nostro bagaglio l’avremmo portato con noi sulle nostre spalle. L’avventura sul Monte Elgon ci aveva dato forma fisica e forza mentale. Sapevamo che potevamo farcela con le nostre gambe e spalle. Forse.
Il paesaggio era simile a quello del monte scalato qualche giorno prima. Superammo la foresta all’inizio partendo già da una quota elevata, 2700 metri. In poche ore avevamo lasciato gli alberi dietro di noi e avevamo, ovviamente, incontrato pioggia. Chissà perché a Londra piove e la gente esce con l’ombrello sotto braccio. Qui no. Ma oramai eravamo abituati a ben peggio e non mi creò molte difficoltà. Pensai zen rimanendo calmo senza imprecare, che, se c’è qualcuno a sentirti, al massimo peggiori la situazione.
Raggiungemmo il primo campo a 3500 metri poco dopo l’ora di pranzo. Fu una camminata facile e non eravamo stanchi. Alla sera mi misi ai fornelli per la solita pasta. Potrei riciclarmi come cuoco da campo, nel caso non potessi più tornare al mi Paese. C’erano una ventina di turisti che stavano salendo e che avrebbero pernottato in una della camerata come avremmo fatto noi.

Al mattino facemmo colazione e cucinai del riso che sarebbe stato il nostro pranzo. Lungo il percorso non avremmo acceso il fuoco e non era possibile raccogliere legna. D’altra parte gli alberi erano rari da quel punto in poi.
La salita fu lunga e costante, e perché no, pure pallosa. Non c’erano altri monti attorno a noi. Qualche avvallamento, ma l’unico vero picco era lì davanti a noi che già ci osservava. E che altro aveva da fare?
Avanzammo in modo spedito seguendo il sentiero a tratti allagato e fangoso. La camminata non era difficile, ma era lunga e il terreno era fastidioso. Superammo dei gruppetti partiti prima di noi e incrociammo chi scendeva che ci facevano l’inboccalalupo. Crepi.

Il piacere di camminare in montagna è la quiete e il contatto con la natura che ti parla in modo silenzioso. Si ha tempo di pensare a se stessi, o alla campagna acquisti della Juventus. Nessuno ti obbliga a parlare. Con i tuoi compagni di avventura i dialoghi sono brevi e le risposte si limitano a dei sì, no oppure ok. Non c’è bisogno di parlare, la montagna la si vive internamente, in modo individuale.
A circa un’ora di distanza dal campo a 4200 metri cominciò a piovere e man mano che salivamo la pioggia scendeva assieme alla neve. I piedi cominciavano a lamentarsi, ma vedevo la baita e non era un miraggio. Quella celestiale visione tra il grigiore di un mondo che stava diventando ai miei occhi monocromatico, mi motivava ad accelerare per trovare riparo al più presto.
La sera fu fredda. Tenemmo il fornello acceso per ore e ci scaldavamo bevendo tè e stando vicino alla fiamma rischiando di bruciarci. Franta asciugò le scarpe bagnate troppo vicino al fuoco come l’odore di plastica bruciata e il nero dei bordi delle scarpe che avvolgono le caviglie dimostrarono. Penso che meritò il premio volpe di montagna per la sua furbizia.
Non avemmo tempo di riposare a lungo. Nel pieno della notte cominciammo la scalata per raggiungere Punta Lenana. Non potevamo salire fino al punto più alto del Monte Keny a oltre 5000 metri perché gli ultimi metri erano un’arrampicata di quarto grado. Non sapevo cosa volesse dire “di quarto grado”, mi bastò la parola arrampicata per capire che non era per me. Anche grado non mi piacque molto.
Salimmo al buio con una torcia ciascuno. Il piano era di raggiungere la cima per ammirare il sorgere del sole. Cominciammo spediti e il sentiero diventava sempre più ripido sotto ai nostri piedi. Era un percorso ghiaioso e i piedi scivolavano all’indietro. I muscoli delle mie gambe erano sollecitati in un modo diverso dalle altre scalate. Spesso dovevo fare forza sui tendini della parte inferiore delle gambe e conseguentemente a metà strada stavano già bruciando. Forse non avevo completamente assorbito lo sforzo del giorno prima. O forse non ero più giovane come pensavo di essere.
Il sole stava per sorgere e la ghiaia lasciò spazio alla roccia. Salimmo aiutandoci con le mani e quando giungemmo a una cinquantina di metri dalla vetta Franta si bloccò. Un misto di sforzo e vertigine. Fu impossibile convincerlo a proseguire. Quell’ultimo pezzo si faceva sempre più impervio e pericoloso e il fatto che la guida ci disse che poco tempo prima un austriaco era morto scivolando a valle in quel punto non aiutò Franta a proseguire. Aspettai con lui il sorgere del sole che illuminò la vetta più alta colorandola di rosa per qualche minuto e svegliando lentamente la valle sotto di noi.
Salii con la nostra guida, un giovane keniota molto gentile e paziente. L’ultimo pezzo era coperto di neve e c’erano le tracce della coppia di canadesi che erano saliti poco prima di noi e che in quel momento scendevano. Poi nessun altro.
Raggiunsi Punta Lenana a 4985 metri. Peccato per quei 15 metri. Solo la vetta era più alta di noi. Era come essere su un balcone e guardare il mondo di sotto. Solo che non c’erano automobili e persone da osservare nei loro movimenti dettati dalla città. Sotto di me non c’era nessuno. Solo roccia e la distesa verde della valle sottostante. Non c’erano rumori. Anche se con la guida, mi sentivo solo lassù ed ero felice.

Purtroppo non rimasi a lungo a godere del panorama dell’immobilità della montagna. C’era un vento forte e gelido e non c’erano ripari. A quasi 5000 metri fa freddo, anche se ci si trova a meno di un grado dall’equatore.
Scesi passando a prendere Franta che stava diventando come un calippo. Sulla ghiaia scivolammo veloci. Era divertente. Scendere, non salire sulla ghiaia. Mangiammo velocemente e ci incamminammo ripercorrendo all’inverso la strada che avevamo fatto meno di ventiquattr’ore prima. Anche se in discesa e senza pioggia, la via mi sembrò infinita. Se all’inizio pensavamo che saremmo potuti uscire dal parco il giorno stesso, più passava il tempo e più ci rendemmo conto che eravamo dei semplici essere umani. Solitamente erano i piedi a riportarci coi “piedi per terra”.
Anche la nostra guida era stanca e guardandomi disse: “Sei stanco? Vedo dalla tua espressione che sei affaticato.” “Ma allora sei un genio. Uno psicologo che riconosce lo stato d’animo di una persona dal suo comportamento. E che cazzo, in due giorni ci siamo fatti una quarantina di fottuti chilometri su oltre duemila cazzoni metri di dislivello ad alta quota sotto una pioggia bastarda e sul fango merdoso. Solo una mente brillante come la tua avrebbe potuto riconoscere i segni della stanchezza sul mio volto di pietra.” Invece riposi semplicemente: “ah ah”.
Anche stavolta al campo arrivai stanco, sporco, ma felice. Un’altra pacca sulle spalle per Andrea “good job, man”.

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che dire, solo 1 parola:

che dire, solo 1 parola: figo, figo figo! E non il calciatore.
Oramai se l'uomo del "Yes, we can!"
Fa speciè in effetti pensare all'altitudine e al freddo vicino all'equatore.
Questo mi fa apprezzare ancora di + il mio bar di pressione a livello del mare e le temprerature miti della bella stagione. Grazie anche per avermi dato l'occasione di rendermi consapevole della cosa.
Ciao