15.02 Nel Serengheti e nel cratere del Ngoro Ngoro
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Peccato non poter tuffarsi nel lago Vittoria, dei batteri rognosi causano danni da non poco conto al tuo corpo. Annusavo il lago e lo vedevo dal nostro albergo, ma non potevo godermelo.
Per un paio di notte c’eravamo trattati bene in un albergo poco sopra la nostra consueta media che era abbastanza di basso livello. Dopo settimane di campeggio, bettole e navi cargo Franta mi convinse a “non viziarci troppo verso il basso”.
Al porto le navi cargo per l’Uganda erano appena arrivate e ci avrebbero impiegato diversi giorni prima di essere pronte a salpare nuovamente. Decidemmo perciò di anticipare il nostro safari al Serengheti e nel cratere del Ngorongoro se si fosse presentata una buona occasione.
Andammo in cerca di offerte. La prima fu uno scherzo. Il prezzo era esorbitante. Ci avevano scambiato per dei ricconi. Franta sbottò “Bene. Ora cancelliamo tutto quello che Lei ha appena scritto su quel pezzo di carta perché è irrealistico e scriviamo il modo meno costoso per fare il safari.” Ovviamente uscimmo dopo trenta secondi di silenzio.
Trovammo il signor Masumin dell’omonima agenzia, un indiano mussulmano che cominciava quel giorno il Ramadam ed era visibilmente stanco quel tardo pomeriggio, ma non meno venditore:
“Fidatevi di me sono quindici anni che faccio questo lavoro e so cosa è meglio per voi.” Questo era il suo ritornello. “Noi stiamo viaggiando da otto mesi e di gente che lavora nell’ambiente da quindici anni ne abbiamo incontrata parecchia. Anzi noi siamo turisti da oltre trent’anni.” Nonostante le arie che si dava, era veramente l’offerta migliore che avevamo ricevuto e in più includeva la condivisione del viaggio e dei costi con due graziose e simpatiche studentesse di medicina britanniche. Come dire di no? Tutto era concordato. Dopo due giorni saremmo andati al secondo safari in Africa.
Nell’attesa andammo in giro per Mwanza. La qualità del cibo era migliorata non poco. Da riso e fagioli passammo a pesce del lago, carne alla griglia e banane fritte o arrostite e pollo. Cominciò pure la mia esperienza con l’ugali, o shima in Zambia. Praticamente polenta. Ero all’equatore, migliaia di chilometri da casa e al ristorante mangiai “samaki na ugali”, “poenta e broeto de pesse”, come a casa.
Al mercato comperammo un enorme cocomero e ci sedemmo davanti alla chiesa cattolica a mangiarlo all’ombra di un frondoso albero. Scolari appena usciti da scuola ci osservavano e ridevano. Alcuni bambini si stazionarono attorno a noi. Non dicevano nulla. Nelle loro divise blu e verdi ci guardavano incuriositi abbracciandosi e dandosi colpi di gomito indicandoci. Ci salutavano in continuazione: “good morning”. Erano le uniche parole che conoscevano in inglese che avevano imparato a scuola per salutare il professore.
Un uomo bianco, un musungu, si avvicinò e lo invitai a sedersi con noi. Era padre Ondreij, un prete missionario polacco in visita a Mwanza e che viveva nella missione di un paesino poco lontano dal lago da qualche anno. Fu un prezioso incontro che mi arricchì. Non solo era gentile, socievole e intelligente, ma aveva una dote innata per la sintesi delle cose importante da dire in incontri fugaci. Ci invitò nel convitto dove soggiornava e ci fece salire sul terrazzo da dove si godeva una meravigliosa vista di Mwanza e del lago Vittoria.
Ci svegliammo presto e Jamil, il nostro autista mussulmano pure lui, ma che non seguiva il digiuno del Ramadan, ci portò col fuoristrada al parco del Serengheti a mezzogiorno con due ore di ritardo, perché mister quindici anni d’esperienza non aveva previsto che il cuoco con noi e un po’ lavativo non aveva pensato alle provviste per il pranzo prima di partire. In ogni caso non ci lasciammo infastidire più di tanto dal contrattempo. Se la caccia grossa al Serengheti e Ngorongoro avesse portato i suoi frutti, tutto si sarebbe dimenticato.
Dentro all’enorme parco nazionale bucammo una ruota che cambiammo prontamente. Due safari due ruote bucate, non male come media. La nostra jeep aveva il tetto apribile e passammo gran parte del tempo con la testa all’aria aperta per vedere meglio e sperare di scorgere elefanti, leoni e leopardi. C’era un solo piccolo problema con il veicolo: a volte il motore non partiva e doveva essere spinto o da altre jeep o da qualcuno. Attorno a noi c’erano molti altri turisti armati di macchine fotografiche con super obiettivi che ci accompagnavano nelle loro jeep e una spinta si trovava sempre.
Era la stagione secca e molti animali erano emigrati al nord, in Kenya. Il primo giorno non fummo fortunati e girammo spesso a vuoto. Anche lungo il fiume dove c’era la poca acqua rimasta dalla stagione delle piogge, non si vedevano molti animali. Delusi arrivammo all’area del campeggio, che, al contrario del parco dell’Etosha, non era recintata. Gli animali potevano liberamente attraversare lo spazio. A circa cento metri da noi c’era una mandria di bufali che pascolavano e avevamo visto due leoni attraversarci la strada poco prima di giungere al campeggio. Ciononostante ci dicevano di star tranquilli e che non c’era da preoccuparsi.
La cena fu ottima e passammo la serata a chiacchierare del più e del meno con le nostre simpatiche compagne di viaggio. Piantammo la nostra tenda accanto ad altre decine e ci addormentammo nei nostri sacchi a pelo perché la serata era fredda.
Il secondo giorno cominciò molto meglio. Primo, eravamo ancora vivi e i bufali non ci avevano calpestato. Secondo, la colazione era pronta e abbondante. Terzo, trovammo una mantide religiosa sulla nostra tenda che si mimetizzava come un rametto secco. Quarto, appena usciti vedemmo una famiglia di leoni, poi delle iene molto ravvicinate e ci trovammo nel bel mezzo di un gruppo di circa trenta elefanti che attraversavano la strada e ci passarono talmente vicini che avemmo paura che uno di loro ci caricasse quando cominciò a nitrire, agitare le orecchie e la proboscide. Invece dopo averci studiato per un po’ si diresse all’albero più vicino, strappò un paio di rami e se li portò alla bocca per mangiare le foglie e una volta finito spezzò il tronco tirandolo giù con la proboscide. Una sorta di “ti spiezzo in due” tanto per farci capire di stare alla larga. Le giraffe del parco erano più timide di quelle viste in Namibia, ma non meno divertenti da osservare nei loro movimenti goffi.
Attraversammo la terra dei masai superando villaggi, greggi di capre e mandrie di mucche. Molti dei pastori erano ragazzini che ci salutavano, o forse volevano che ci fermassimo per farsi fotografare e farsi pagare, perché tutto lì è business, soprattutto la tradizione. Salimmo fino a sopra il cratere del vulcano spento di Ngoro Ngoro a 2600 metri e scendemmo per una ripida strada in terra battuta. Jamil guidava da ore, ma non sembrava stanco. Finalmente entrammo nel cratere e raggiungemmo il fondo.
Lo spettacolo era di quelli da togliere il respirto. Una volta scesi nella caldera le pareti del cratere circondavano tutta l’area dando la sensazione di non poter uscire da lì. Eppure gli animali entrano ed escono superando quelle montagne circolari così impervie. Al centro c’era un lago e i fenicotteri ci stavano come fossero a casa loro. C’erano enormi mandrie di gnu, zebre, un paio di ippopotami che si ruotavano su se stessi dentro una pozza d’acqua. Vedemmo leoni e iene, ma nulla di particolare. Gli animali non offrirono niente di entusiasmante, ma lo scenario offerto dal paesaggio compensava quella mancanza di emozioni. La sola idea di essere dentro un vulcano era elettrizzante. Se non avessi saputo di trovarmi nel Ngoro Ngoro, avrei pensato di essere in una bella valle, piena di pascoli, con un lago e delle pozze d’acqua circondata da perfette montagne.
Il campeggio era sopra il vulcano su una delle pareti che lo racchiudeva. Eravamo ad un’altitudine abbastanza elevata e il freddo aumentava man mano che il sole scendeva. Anche questo campeggio non era recintato e alla sera un gruppo di zebre venne a farci visita. Si lasciavano avvicinare, seppur non così tanto da accarezzarle, e sembravano abituate ai flash delle macchine fotografiche. La nostra preoccupazione maggiore, e quella di almeno un altro centinaio di campeggiatori, era quella che non corressero sopra le nostre tende. Al mattino mi svegliai integro, segno che le zebre avevano preferito brucare l’erba alla tende di plastica.
Tornammo verso Mwanza seguendo un altro strada attraverso il parco. Vedemmo ben poco e il viaggio fu lungo, ma avemmo modo di vedere da vicino due iene che divoravano una carcassa di una gazzella con gli avvoltoi che aspettavano il loro turno a pochi metri. Sembravano spettatori interessati. Non vidi il leopardo che era in cima alla mia lista, ma sopra ad un baobab c’era una delle sue prede, una sfortunata antilope, che il leopardo aveva portato al sicuro. Aspettammo invano che si facesse vivo, ma lui niente, se ne stava nascosto a pochi metri e noi non potevamo vederlo.
Salutammo gli animali della savana e rientrammo a Mwanza che era già buio stanchi, ma soddisfatti, anche se non pienamente a causa di quel leopardo timidone. Le ragazze soggiornarono nel nostro stesso albergo e grazie a loro ottenemmo uno sconto sulla nostra camera. Erano molto convincenti. Sarebbero state delle ottime venditrici, ma fortunatamente sarebbero diventate delle dottoresse a breve.
Festeggiamo il safari con una pizza, nonostante il mio voto contrario. Era una pizza della Tanzania, ma la compagnia era piacevole, che potevo farci?
- blog di Unprepared Andrea
- 2016 letture
Commenti
Lametta
Il racconto è bello ma mi soffermo come sempre su lati più estetici. Vedo che ormai ti sei convertito alla lametta. Meglio nelle foto si notano di meno quelle quattro zone di capelli superstiti. Stai bene. Deve essere una figata veder una caldera. Viva la polenta.
Poenta fan cleb! tra poco non
Poenta fan cleb!
tra poco non dovro' usare piu' la lametta perche' non ci sara' piu' nulla da radere...