24.03 Sulla riva del fiume Mekong mi sono seduto e ho scatarrato
- Kategorie:
Arrivai a Don Det su un sanpam per attraversare il Mekong. Di isole che ne sono davvero molte. Il Mekong sembra indeciso sul da farsi da queste parti e appiattito si dirige un po’ ovunque isolando chilometri di terra con le sue acque e dando l’opportunità ai laotiani di inventarsi una spiaggia e un mare quando non ce l’hanno.
Appena misi piedi sull’isole fui terrorizzato. Attorno al molo d’attracco sorgeva una città turistica piena di guest house e ristoranti che si spingevano uno con l’altro per farsi notare. Con il compagno di viaggio francese, trafficante in antichità, ci dirigemmo sotto il sole cocente oltre tutta quella infelicità e raggiungemmo una zona più isolata e ci intrufolammo nell’ultimo bungalow disponibile in riva al Mekong. Sulla riva opposta c’era un monastero buddista. Temetti il ripetersi di Gerusalemme dove muezzin e campane fanno a gara a chi ti sveglia prima. Fortunatamente I buddisti sono più silenziosi e non hanno alte torri da dove lanciare i loro gridi al mondo. La campana rintocca per chiamare i monaci alla preghiera, ma lo fa in modo più discreto, quasi avendo paura di disturbare.
L’isola era un perfetto luogo di riposo. I laotiani badavano ai loro affari e non tormentavano gli stranieri, altri passavano la giornata a pescare o ad aggiustare le reti, mentre le donne si prendevano cura dei bambini e delle galline. I bambini giocavano per strada e ti salutano con un chiassoso “saibadi”. Alcune bambine giocavano ad una specie di palla prigioniera, solo che anziché il pallone si tiravano delle ciabatte di plastica. Mezzi diversi, ma il risultato era lo stesso: risa e grida di gioia. Anche se eravamo su di un’isola tutti si muovevano in motocicletta o in bicicletta. Persino i bambini si arrampicavano sul sellino e sfioravano appena i pedali con la punta dei piedi nudi.
Dopo due giorni avevo già percorso per cinque volte i sei chilometri che delimitano il perimetro dell’isola e mi stavo annoiando su quell’isola. Non c’era altro da fare che starsene sdraiati sull’amaca e lasciarsi dondolare. Tutti accompagnavano il dolce far niente con un beerlao, la birra laotiana, e con una o più canne visto che la materia prima non mancava sull’isola. Io mi rassegnai a bere acqua sperando non fosse quella del Mekong e aspettai che la tosse che mi accompagnava dal nord del Laos mi passasse.
Un ragazzo italiano col quale avevo fatto amicizia, per svago più che per convinzione, faceva frequenti raid per farsi riempire la bottiglia d’acqua presso una simpatica e carina giovane donna locale. Una sera il marito si presentò alla nostra guest house e parlò col proprietario che suggerì al novello Romeo di non bere più acqua o di andare a farsela riempire altrove se non voleva passare il resto dei giorni sull’isola, o meglio da qualche parte nell’isola. Gentili, tranquilli, accoglienti e semplici sì, ma i laotiani non sono stupidi.
Decisi di partire, ma l’indolenza fu più forte e alla mattina non riuscii a levarmi dal letto per prendere l’autobus. Le serate le passavo steso sull’amaca chiacchierando con i ragazzi italiani, con una scozzese in Laos per monitorare gli spostamenti degli orsi laotiani, e il mio compagno di viaggio, il francese che alla sera si divertiva a comporre musica elettronica.
I farang, i turisti visi pallidi, passavano le serate a fumare ganja. Io non mi univo, non so se perché il fumo nuoce gravemente alla salute o perché ero ancora raffreddato e non volevo compromettere le immersioni che avrei fatto da lì a poco. Stavano a dondolarsi sull’amaca ascoltando il silenzio del Mekong interrotto solamente dalla musica lounge inventata dal antiquario francese.
“Ah, qui il fumo costa poco” dicevano tra un tiro e l’altro “ed è buono”. Osservai impertinente che “forse se aggiungi il biglietto aereo ti conviene comprartelo a casa, no?”. Ottenni come risposta dei lamenti profondi. Effettivamente non si discute con chi si sta facendo una canna.
Eravamo lì, su di un isola nel mezzo del Mekong. Nessuno ci rompeva le scatole. Ognuno era chi voleva e faceva quello che voleva. Si parlava di tutto, da cose senza senso, alle donne, alla geopolitica. Fumavano sentendosi liberi di essere ciò che volevano, in barba a quello che la società imponeva. Ma eravamo lontano, eravamo eremiti, fuggiaschi o esploratori. Sentii che dovevo partecipare anch’io, liberarmi e fare quello che volevo. Quello era il mio mondo e potevo farne ciò che volevo. Non fumai. Il mondo doveva ispirarmi. E allora sulla riva del fiume Mekong mi sono seduto e ho scatarrato.
- blog di Unprepared Andrea
- 1461 letture
Commenti
poi il tuo catarro è entrato
poi il tuo catarro è entrato nel ciclo della vita e finirà nella bottiglia del prossimo straniero che si farà riempire la bottiglia d'acqua in una dispersa isola del Mekong... bravo!