Da Van a Oryumeh, ovvero dalla Turchia all'Iran in autobus
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Superare il confine con l’Iran attraverso Sero era quello che desideravamo e ci riuscimmo.
Avevamo sentito voci di amici e chiacchiere da forum che non era possibile per gli stranieri passare in quel punto e che avremmo dovuto spingerci più a nord saltando così le montagne che circondano la frontiera in quella parte di Turchia, ma l’addetto ai viaggi del punto vendita dei biglietti dell’autobus a Van ci assicurò che non c’erano problemi.
Acquistammo la nostra entrata in Iran per la mattina e saremmo arrivati a Oryumeh nel tardo pomeriggio. Non ci fu dato un biglietto vero e proprio, ma semplicemente un foglietto con soscritto data e prezzo. Uscimmo dall’agenzia un po’ perplessi da quel pezzo di carta, ma non ci ponemmo troppi problemi.
“Andrea, non serve essere formali qui. Sai benissimo come vanno le cose da queste parti”. Franta si riferiva all’autobus preso a Diyarbakir per Van che cambiò orario, piattaforma e compagnia un paio di volte nel giro di 5 minuti facendoci disperare di rimaner bloccati in una stazione che non ci piaceva più di tanto.
All’ufficio informazioni un simpatico assistente ci confortò in un perfetto inglese sulla validità della particolare carta d’imbarco e ci informò sul tasso di cambio che avremmo potuto aspettarci al confine e in città una volta arrivati a destinazione. Eravamo pronti ad entrare in Persia!
Alla mattina, come al solito, Franta era in ritardo siccome stava spacchettando e impachettando tutto nuovamente. Franta era innamorato della nostra stanza d’albergo e una passione smisurata per perdere tempo e fare le cose all’ultimo momento. L’albergo l’avevamo trovato per caso quando giungemmo a Van alle 2 di notte. La città era deserta ad eccezione di due persone, due passanti che casualmente erano in zona e ai quali chiedemmo informazioni. Evidentemente a zero gradi di notte, due anziani non hanno di meglio da fare da quelle parti. Al solito eravamo impreparati per il nostro soggiorno in Van, che in realtà era stato deciso qualche ora prima in autobus quando improvvisamente decidemmo di cambiare la destinazione, Tatvan, per continuare oltre il lago di Van raggiungendo l’omonima cittadina. La stanza d’albergo era calda e comoda ad un prezzo conveniente e a Franta era entrata nel cuore e io l’avevo usata per lavare mutande e calzini.
Riuscimmo ad arrivare tutti e due in tempo per vedere l’addetto dell’agenzia sbracciarsi verso di noi motivandoci a correre per prendere il minibus che aveva appena fermato per noi. Sembrava che il nostro ritardo stesse fermando l’intera Turchia dall’andare in Iran e invece, come al solito, una volta arrivati all’autobus aspettammo mezz’ora prima di partire.
L’autobus correva tra montagne innevate e il sole rifletteva sulle bianche cime accecandoci, ma non impedendoci di vedere le acrobazie dell’autista che usava il volante come fosse un mestolo continuando a girarlo a destra e a sinistra per superare su strade di montagna camion carichi di attrezzature e trattori. Man mano che superavamo le montagne la neve lasciava il posto al solito monotono colore della terra fangosa dove qua e là solitari greggi si arrangiavano con i pochi cespugli che spuntavano da un suolo che non sembra amare il verde.
Ci fermammo ad un paio di posti di blocco e l’assistente di viaggio rimase affascinato dalla mia macchina fotografica e unendo le dita della mano in un gesto che da noi potrebbe essere interpretato come “che cavolo vuoi?” mi disse nel suo migliore inglese “Bery good”. Franta prese l’opportunità per fotografare un bel carro blindato con i soldati che annoiati calciavano pietre e fumavano sigarette. Al passaggio per un paesetto marrone come i finti pascoli intorno ci fecero prima proseguire impedendoci di sostare sul punto prestabilito per lo scarico dei passeggeri e poi arrestare in mezzo alla strada urgendo la gente che doveva scendere a farlo velocemente. La ragione era che un gruppo di ragazzini aveva acceso del fuoco in mezzo alla strada in latte e bidoni e più avanti non si passava in quella corsia, ma avremmo dovuto effettuare una leggere deviazione. Il ragazzo di Adana che durante le sue vacanze dallo studio andava ad aiutare suo zio farmacista in quell’angolo sperduto della Turchia ci raccomandò di stare attenti. In Turchia tutti si prendevano cura di noi, poveri stranieri e viaggiatori impreparati. Non c’era ragione di preoccuparsi per noi, nemmeno quando muovendoci con l’autobus per le strade del paese il gruppo di ragazzini si fece vedere sul lato sinistro sbucando fuori da un vicolo. Saranno stati una trentina tra i 13 e i 16 anni, alcuni con i volti coperti e dei sassi in mano. Gli altri passeggeri cominciarono a ridere e a salutare con la mano. Prontamente lo feci anch’io dal mio finestrino e ricevemmo saluti e grida come risposta. Con i ragazzini non si sa mai…
Il resto del tragitto fino all’Iran fu tranquillo e il passaggio della frontiera fu semplice e relativamente veloce. Fummo fatti scendere per proseguire a piede attraverso un piccolo e spartano edificio con foto di Ataturk ovunque per lasciare la Turchia. Percorsi in fretta il lungo corridoio che collegava un simmetrico edificio sul lato iraniano pieno di immagini degli Imam Khomeini e Khameini. Dopo aver esplicato la parte burocratica con timbro sul visto, frasi del tipo “welcome to Iran” e altre cose in farsi che ovviamente non capimmo, e sorrisi da parte delle guardie di frontiera e degli stessi passeggeri che volevano assolutamente sapere da dove venissimo. Appena uscimmo ci guardammo intorno inspirando profondamente per constatare con somma gioia che l’aria era la stessa e che da due monti uno di fronte all’altro c’erano le immagini severe di Ataturk da una parte e dei due Imam Khomeini e Khameini dall’altra sempre crucciati e forse un po’ incazzati per doversene stare lassù al freddo.
Eravamo finalmente in Iran! E tutto era stato facile. A casa la gente è terrorizzata dall’impero del male e non si vuol pensare che per altri l’impero del male siamo noi. Il bombardamento mediatico che subiamo dai mezzi di comunicazione che solitamente provengono da una stessa fonte di parte creano inequivocabilmente dei preconcetti che, anche volendo contrapporsi e non accettarli per partito preso, entrano nella nostra mente e ci rimangono insinuando dubbi e timori spesso infondati. Appena entrato in Iran mi trovai di fronte un ordinato posto di frontiera con gente gentile, non diffidente come lo saremmo noi con loro. In effetti ci fecero delle domande un po’ strane:
“Come ti chiami?” “Nel passaporto a volte riportano il nome” ovviamente gli dissi il mio nome.
“Come si chiama tuo padre?” “E questo cosa c’entra?” avrei voluto rispondere.
“Da dove vieni?” “Scusa, secondo te il passaporto me lo sono fatto dare da mio padre di cui ora sai pure il nome?” Strano che con il passaporto italiano mi venne chiesto da che Paese io provenga.
L’autobus ci aspettava dall’altra parte e dopo aver cambiato qualche euro in rials proseguimmo per Oryumeh. Come ogni punto di frontiera da questa parte del mondo, e non solo, il cambio delle agenzia cambio passeggianti fu osceno, ma non ci sono molte possibilità di cercare un’occasione migliore e quindi, già preparati cambiammo solo quel poco per poter proseguire il viaggio verso Teheran e per mangiare qualcosa di veloce.
L’assistente di viaggio ci portò patatine, pastine e tè made in Iran per farci passare le ultime ore di quel lungo viaggio iniziato alle 8 del mattino e dopo un paio di controlli di polizia arrivammo finalmente alla stazione degl’autobus di Oryumeh.
La nostra intenzione era quella di pernottare a Oryumeh e invece, per la terza volta in quattro giorni cambiammo il nostro piano d’azione e decidemmo di proseguire direttamente per Teheran viaggiando di notte. Partenza ora 22, arrivo nella capitale alle 8 saltando purtroppo Tabriz, capitale dell’Azerbaijan iraniano.
Nella stazione a Oryumeh cercammo qualcosa da mangiare e fummo bloccati da un ragazzo che parlava inglese.
“Hello Mister! How are you?” questo sarebbe diventato il live motiv del nostro soggiorno in Iran. Siccome ci trovavamo davanti ai dei taxi risposi con diffidenza ma educazione sommerso dai miei due zaini.
“Salaam”
“Hey, non preoccuparti parlo inglese e voglio aiutarvi” A questo punto il sospetto si face sempre più grande.
“Non abbiamo bisogno di taxi e vogliamo mangiare qui per poi partire per Teheran”.
Il ragazzo fu veramente gentile. Ci portò al fast food della stazione che era chiuso. Lo fece aprire e ci fece entrare. Ordinammo un panino gigante chiedendoci quanto lo avremmo pagato e invece ce la cavammo con l’equivalente di un dollaro a testa. Ne ordinammo subito un altro affamati com’eravamo in una sorta di Ramadan. Il ragazzo se ne andò salutandoci cordialmente augurandoci di passare un bel soggiorno in Iran e di goderci la sua patria.
Girovagando ora alla ricerca di un bagno che trovammo solo sotto format di un parchetto buio dietro l’angolo, potei godermi dieci minuti del campionato italiano. Trasmettevano l’Inter in anticipo, e vedere il calcio italiano in televisione a 2 ore e mezza di fuso orario di distanza mi fece pensare che non ero poi così lontano da casa e che gli iraniani non hanno di meglio da fare che annoiarsi col nostro calcio.
L’autobus era ovviamente in ritardo di una mezz’ora anche se poi capii che lo fanno per aspettare nuovi clienti e partire con il veicolo pieno. Solitamente la partenza e la destinazione non vengono annunciati da un’insegna luminosa. No, sarebbe troppo semplice. Gli autisti, gli agenti e gli assistenti di viaggio vanno su e giù per la piattaforma urlando la destinazione e cercando di catturare clienti, come se cercassero di convincere i passanti a farsi 10 ore di viaggio non pianificato… Non gli davo torto, solo pensai a questi passeggeri ritardatari che non si preoccupano più di tanto dell’orario tanto sanno che qualcosa trovano. Compresi subito che affannarsi per essere in orario o in anticipo è un’inutile preoccupazione da queste parti.
Le 10 ore di viaggio le passammo tra il sonno, la tv che trasmetteva una commedia stile anni ’70 iraniani, un succo di frutto che cercavamo disperatamente di aprire e che un passeggero impietositosi aprì a Franta e che io cercando di copiare i movimenti secchi necessari versai sul mio zaino.
Eravamo in Iran, eccitati come bambini a Natale aspettando solo di aprire il regalo davanti a noi. Allo stesso modo preoccupati di non fare nulla fuori posto perché “a volte lo fanno apposta a crearti dei guai perché a loro non piacciano gli stranieri, soprattutto se sono cristiani o ebrei” citando un eminente esperto dei modi di vivere in Medio Oriente e in Asia Centrale, il tabaccaio sotto casa mai uscito dal suo fumoso sgabuzzino.
- blog di Unprepared Andrea
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Commenti
Mutande e calzini
mutande e calzini non stirati...
che brivido...
che orrore, lo so! non sono
che orrore, lo so! non sono riuscito a portarmi dietro il ferro da stiro, dovevo scegliere tra il corredo da juventino e il ferro da stiro.
vedro' di rimediare, a volte dimentico gli insegnamenti. mea culpa.
un abbraccio
più che altro pensavo alle
più che altro pensavo alle sofferenze che stai infliggendo al tuo povero scroto depilato...
cmq, sappi che devo anche io confessarti una cosa: sono recentemente passato alla tua religione... ossia quella delle mutande e dei calzini "nature"... non certo a quella dei gobbi... ma penso che sia grave lo stesso...
non ho ancora maturato quella serenità che invece vedo tu hai raggiunto in proposito...
grandissimo, non sai che bello leggere il mondo dal tuo punto di vista...
ciao