Attraverso il Pakistan in treno
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Scampato il pericolo di Quetta il viaggio in treno attraverso il Pakistan fu gradevole.
La nostra idea originaria fu quella di arrivare in India il più velocemente possibile. Eravamo a conoscenza della situazione critica in Pakistan e che era sconsigliato andare in Pakistan se non strettamente necessario secondo il sito viaggiare sicuri della Farnesina. Una volta entrati nel Paese e sopravvissuti a Taftan e Quetta decidemmo che avremmo dovuto passare almeno qualche giorno in Pakistan e visitare qualche luogo. Visto che eravamo lì tanto valeva approffitarne e se la situazione fosse precipitata saremmo scappati al più presto.
Senza nessuna informazione turistica chiedemmo ai nostri amici della nottata di paura quali posti avremmo potuto visitare prima di andare a Lahore e poi in India. Ci consigliarono di andare a Multan, la città più calda del Pakistan e anche una delle più grandi. Seguimmo il consiglio e decidemmo di scendere a Multan ed esplorare la città.
Sapevamo solo che si trovava al centro del Paese, ma non sapevamo null’altro. Al solito eravamo impreparati. Chiedemmo quanto ci impiegava il treno ad arrivare a destinazione. Ci risposero cinque ore, poi capimmo che intendevano alle cinque, e infine uno studente in veterinaria chiarì che sarebbe arrivato sì alle cinque, ma del mattino del giorno dopo con inevitabili ritardi. Ci attendeva un viaggio di 23 ore in treno dopo averne passate 12 in autobus e esserci congelati. Bene!
Franta era praticamente un surgelato e si tuffò con giubbotto e pantaloni dentro il sacco a pelo a scongelarsi per un paio d’ore. Avevamo due posti nel vagone letto che in Pakistan sembra più una camerata militare senza scompartimenti e praticamente senza divisori. I letti superiori sono comunicanti. Subito affrontammo il problema dei bagagli. Dove mettere i nostri zaini senza correre il rischio di vederli sulla spalle di qualcun altro che correva fuori dal treno mentre dormivamo? I nostri compagni di “stanza” insistettero per metterli sotto i sedili per terra. Titubanti li mettemmo lì, non avevamo altra scelta.
Il nostro veterinario parlava bene inglese e spesso fungeva da interprete per i vari pakistani che venivano a vedere quelle due strane persone dalla pelle di colore, alti e senza capelli che vestivano stranamente e parlavano una lingua che riconoscevano come inglese, ma che non capivano parlando solo urdu.
Attraversammo una terra polverosa. Tutto era secco e desolato. La mia stanchezza mi faceva vedere i pochi villaggi e le loro povere case con tristezza. Era possibile che un Paese così avesse la bomba atomica pronta da lanciare contro l’India?
“Il Pakistan è una terra tranquilla. Magari ci sono dei piccoli problemi in Balucistan e ovviamente al confine con l’Afganistan, in una piccola zona, ci sono i nostri soldati che bloccano i talebani e non si può passare, ma la situazione è sotto controllo e tutto il resto è a posto.” Ci sentivamo spesso rassicurati in questo modo.
“E gli attacchi terroristici? E le bombe?” replicavo non potendo credere a quello che mi veniva detto.
“Certo ci sono ogni tanto, ma la gente vive tranquillamente la sua vita senza problemi. Ho un amico che vive lì e lui non si accorge nemmeno quando ci sono delle esplosioni ad esempio a Peshwar.”
Non so perché ma non mi stavano tranquillizzando in quel modo, se era quello che cercavano di fare. Volevano dirci che il Pakistan era un bel Paese, ovviamente meglio dell’India, e che era a causa dei Talebani e degli Indiani se c’erano dei problemi.
“Comunque è vero che il governo non prende decisioni giuste. Ad esempio che ne fanno dei soldi? Perché non li investono nell’educazione? In Pakistan solo gli studenti universitari parlano inglese. Non abbiamo ingegneri. Pensa che a Karachi stiamo ampliando il porto e dobbiamo chiedere aiuto ai cinesi perché non abbiamo la tecnologia.” Pensai ancora alla bomba atomica.
Continuavamo a chiacchierare in non-inglese con i nostri compagni di viaggio e probabilmente tutto il treno venne a farci visita e a stringerci la mano, inclusi i poliziotti che giravano armati avanti e indietro. Ci offrirono tè, o meglio chai, il tè speziato con latte eredità degli inglesi. Eravamo ancora al centro dell’attenzione. A volte quando arrivava qualcuno interrompeva chi parlava con noi e lo cacciava via per avere un posto privilegiato vicino a noi fino a che arrivava un’altra persona che faceva lo stesso.
Fummo intrattenuti pure da un giovane predicatore che disse di essere andato in Nigeria a riaccendere la fiamma dell’Islam nella gente che s’era smarrita. Non mi sembrò un fanatico con spinte estremiste e perciò pericoloso. Mi diede l’idea di uno che credeva fermamente in quello che diceva anche se con noi era cascato male. Si vedeva che non aveva pratica e nonostante l’ottimo inglese non riusciva a controbattere alle nostre domande. La cosa che mi preoccupò di più e che presumo sia presente in tutti i predicatori mussulmani, almeno la gente religiosa che ho conosciuto durante il viaggio, è la mancanza di ascolto. Agiva secondo un monologo, recitando una parte imparata molto bene, ma che mi sembrava non pronta al dialogo. Per me questo era un limite enorme nella sua ricerca di proseliti. Quello che diceva io riuscivo a dirlo meglio secondo la logica cristiana, e quando gli facevo domande tipo:
“E allora perché nel mondo c’è tanto dolore e privazione? Perché Allah permette tanta sofferenza?” e queste erano solo le provocazioni più banali che anch’io riuscivo a sostenere in un’ottica cristiana pur non essendo credente. Lui rispondeva cantando qualcosa del corano imparato a memoria che si risolveva con “prega e Allah risolverà la situazione” avrei voluto chiedergli se secondo lui Allah fa pure ricrescere le gambe amputate nelle guerre sante, ma non mi andava di ascoltare altri canti coranici senza un dialogo aperto.
Invece gli altri mussulmani lo ascoltavano in, per l'appunto, religioso silenzio. Annuivano e non rispondevano o contribuivano. Erano rapiti dal monologo. Si rafforzava in me il pensiero che nell’islam, la maggior parte dei credenti non è pronta ad un dialogo, ma che deve essere semplicemente indottrinata. Volevano solamente seguire il pastore come un mansueto gregge. Rabbrividii e pensai quanto sia pericoloso essere manipolati così da un credo religioso. Ovviamente non avevo di fronte a me degli studiosi o intellettuali, ma loro sono in ogni parte del mondo una minoranza.
Il massimo dell’assurdo lo raggiunse quando parlando con Franta cercò di convertirlo seduto nel vagone letto di un treno per Multan. Franta, ceco e perciò non credente, rispose a tono su ogni cosa che il predicatore disse. A volte mi sembrò pure che la fede del mussulmano vacillava, in particolare quando Franta lo lasciava senza parole. L’apice fu quando disse a Franta:
“Prega Allah che ti farà trovare la fede.”
All’inizio della chiacchierata ci aveva invitato nella sua comunità a far colazione per dimostrare l’ospitalità pakistana e islamica. Alla fine ci salutammo alla stazione e ognuno andò per la sua strada.
Multan la visitammo in una giornata ammirando il parco dove dormimmo sotto un caldo sole. Attraversammo il bazar e scattammo delle foto ai mausolei attorno al parco. Prendemmo un risciò e andammo alla stazione dei treni per arrivare nella notte a Lahore.
Tutto sommato la visita a Multan fu gradevole. Il tepore di una giornata soleggiata ci ricaricò e le persone che incontrammo ci fecero vedere il vero volto dei pakistani, cordiali, socievoli e poco invadenti, col desiderio di accoglierci e darci il benvenuto, ma senza esagerare o cercando di approfittarsi di noi, poveri viaggiatori impreparati.
Lo zio d’India aveva ragione, in Pakistan puoi incontrare gente fantastica, ma anche qualcuno che ti può far finire molte male come a Quetta.
- blog di Unprepared Andrea
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Commenti
Credimi, capisco la tua
Credimi, capisco la tua conigliaggine...
ma sarebbe stato bello se avessi vestito i sobri panni di Nicolas Eymerich nella disputa religiosa con l'imam...
Avresti dato al precidatore quello che si meritava...
Ovviamente sarebbe finito al
Ovviamente sarebbe finito al rogo, anzi tutto il treno avrebbe dovuto bruciare! Peccatori!
Ma non ti preoccupare, abbiamo una cellula operativa di cristiani in Pakistan. Dicono di avere una forza pari al 9-10% della popolazione. Ne ho incontrato alcuni a Lahore e ci hanno invitato a cena con spirito di fratellanza... Il mio amico della Rep Ceca e', ovviamente, ateo, e io ho dovuto ripescare dal pentolone la mia cultura cattolica...